John, nigeriano, ventotto anni
Sognava l’insegnamento, figlio unico, studiava in una scuola d’arte, poi il dramma. «Banditi fanno irruzione nel negozietto di famiglia e ammazzano mia madre, due colpi di pistola. Anche mio zio morto in modo simile. Fu mia zia a informarmi su quanto fosse accaduto». Lacrime interminabili, l’addio alla Nigeria, i lavori nei campi del Niger, infine prigionia e fuga dalla Libia, complice una guardia carceraria».
«Due colpi in pieno viso, lei si accascia a terra, inutili gli interventi della gente che in quel momento è lì vicina!». John, nigeriano di Edo State, ventotto anni, fede cristiana, ospite del Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”, racconta il tentativo di rapina che costò la vita alla mamma, quarant’anni da poco compiuti. Uno degli episodi violenti che hanno segnato la sua di vita. In famiglia qualcosa di simile, e altrettanto violento, era già accaduto. Vittima lo zio, anche lui ammazzato per pochi soldi da banditi. «La vita – riprende John– non conta niente lì, tutti fanno di tutto: da piccolo ti tocca decidere, e alla svelta, cosa fare; se nella conta di “guardie e ladri”, tu fai parte dei primi, quanti cioè rispettano le regole del vivere civile, oppure degli altri, chi invece sostiene che il crimine paghi».
John, nero come il carbone, pupille che gli spiccano sul viso, sgrana gli occhi, torna indietro nel tempo. Ai suoi quindici anni, figlio unico, e alla zia paterna che gli comunicò la notizia della morte violenta della mamma. La donna si recò a scuola a trovare il nipote. Il ragazzo seguiva le lezioni nella Scuola dell’arte, dove stava imparando a scrivere la vita in modo corretto. La zia non voleva che il ragazzo apprendesse la notizia da altri, in modo violento. Tornando a casa, per esempio, rivolgendo lo sguardo verso il negozietto di generi alimentari di papà e mamma, dove nel frattempo si era formato un capannello. John, ricorda ancora quei momenti, piange. «Per me fu un duro colpo, dal quale mi sono ripreso a malapena: la mia vita, regolare fino a quel punto, aveva subito una brusca frenata, di lì a poco intorno sarebbe cambiato tutto!».
PIANGE JOHN, «SCUSATE IL MOMENTO DI DEBOLEZZA»
Seduto a un tavolo, sorseggia un “espressino”, posa la tazza, si stropiccia gli occhi. Fa effetto vedere una reazione simile in quel ragazzone. Un italiano approssimativo, chiede scusa di quello che giudica un momento di debolezza. Ci scusiamo noi, invece: fare i cronisti, infilandosi fra le pieghe di una storia, è cosa assai complicata. Il più delle volte, dolorosa, per tutti. Ma le storie di ragazzi come John, che fuggono dal loro Paese in cerca di un angolo di cielo, possibilmente sereno, vanno raccontate. Utili, come sono, anche a quanti arricciano il naso vedendo un ragazzo nero, nonostante sia mite, aggirarsi, mani in tasca, per le vie del Borgo antico, la Città vecchia. «La zia, la faccia sconvolta – riprende il racconto – mi prese in un angolo e cominciò a raccontarmi cosa fosse accaduto poco prima: la prese larga, partendo da frasi incoraggianti, prima di arrivare alla vera notizia, agghiacciante: la morte violenta di mamma, in quel modo e per mano di tre banditi, armati di una pistola e due fucili; prima che la zia arrivasse a conclusione, ricordo, cominciò a mancarmi il fiato: ero un ragazzino, ma già capivo i grandi e quelle frasi, morbide ma con dentro cose brutte; cominciano sempre con lo stesso tono: una dolcezza che comincia a tingersi di dolore; ecco il mio sfogo, mi torna nella mente quel giorno: le parole e l’abbraccio di mia zia, il pianto di mio padre che mi stringeva forte, le sue lacrime che sfioravano il mio viso».
Ha nella mente quel dramma, come glielo hanno raccontato familiari e vicini, clienti di quella piccola drogheria. «I “miei” – racconta John – vendevano generi di prima necessità, guadagni magri, ma sufficienti ad assicurarci una vita decorosa e a farmi studiare: da grande volevo fare l’insegnante; non so, i libri mi sono piaciuti fin da piccolo e l’idea di insegnare a qualcuno i valori della vita, mi ha sempre affascinato; ora quel sogno si è infranto, quei due colpi di pistola hanno messo la parola fine alle mie ambizioni e, quel che più conta, alla vita di mia madre».
«HO RIMESCOLATO I MIEI SOGNI»
John rimescola i suoi sogni, torna alla sua scelta, scappare dal suo Paese, pensare a un futuro lontano da regole violente. «Studiavo, giocavo al pallone, ma quei campetti di calcio non facevano più al mio caso, avevo perso la serenità, il sorriso; ero andato a vivere a casa della zia, fino a quando una malattia incurabile mi portò via anche lei; papà, nel frattempo, stava provando a rifarsi una vita, aveva una nuova compagna e io, figlio unico, potevo scegliere in modo autonomo, se restare – in quel clima da guerriglia urbana – oppure andare via, cercare fortuna».
Il suo viaggio, John lo tiene scolpito nella mente, giorno per giorno. «Arrivato in Niger – spiega – fui ospite di un signore che aiutai nei campi, una settimana: in cambio mi accompagnò ai confini con la Libia, passaggio obbligatorio per lasciare l’Africa e cominciare a vedere quella speranza della quale, da anni, parlavo con i miei amici; sette mesi in Libia, più o meno la metà fatta di grande sofferenza, tre mesi e due settimane recluso con miei connazionali in una prigione improvvisata».
«Sono stato picchiato – mostra le cicatrici John – torturato con un coltello: ho i segni addosso, sul naso, il resto del viso, sulle braccia; avevamo fame e ci passavano un piatto di spaghetti condito da un medicinale che ci indeboliva perché ci passasse la voglia di scappare; poi, un bel giorno, uno dei carcerieri, mosso a compassione, una notte ci fece fuggire; arrivati a Tripoli, io e miei compagni di fuga, ci riunivamo intorno a una enorme piazza: lì ogni mattina veniva gente con auto e furgoni, ci caricava e portava a lavorare nei campi; cinque mesi di lavoro, per mettere insieme i soldi utili per imbarcarci su un gommone e, finalmente, in Italia: in mare aperto, avvistati da una nave militare italiana, soccorsi e. una volta sbarcati, accompagnati a Catania; da lì viaggio in bus e l’arrivo a Taranto; qui è cominciata la mia nuova vita: guardo al passato con tristezza, più che con nostalgia, e al futuro con speranza».