La storia di Moustafa, da un dramma all’altro
«Una volta in Italia ho ripreso a vivere. Ho perso mio padre per un male incurabile, mamma e un fratellino sono rimasti lì. Facevo il fattorino, poi un brutto incidente stradale: il mio datore è morto, io sono rimasto ferito a una gamba. Studio, ho conseguito la terza media e conto di fare il meccanico o il carrozziere»
«Voglio fare il carrozziere, non sono bravo? Guarda!». Moustafa, poco più di venti anni, nato in Costa d’Avorio, mostra orgoglioso un video che ha fatto in tempo a riportare sul suo cellulare. «Prima di partire dal mio Paese e compiere un viaggio fra mille contrattempi, ho fatto anche il meccanico e il carrozziere: le due cose, dalle mie parti, vanno di pari passo». Il ragazzo ivoriano spiega il suo lavoro accompagnandosi con un gesto tutto italiano, mima infatti con le due mani due piedi uno accanto all’altro. Moustafa impara in fretta, la fretta gliel’ha data la vita. Ha imparato anche a vedere il mezzo bicchiere pieno sempre, nonostante una disgrazia fra le altre, perché sono almeno due gli episodi che segneranno la sua vita. «Mio padre è morto di tumore, quello che in Italia – altra cosa triste che ho imparato – chiamate “Male incurabile”; in Costa d’Avorio è rimasta mia madre che nel frattempo si è risposata, e un fratellino che studia con quei pochi soldi che riesco a mandargli».
Non è l’unica cosa che segna la vita di Moustafa. Andiamo per ordine, cosa faceva in Costa. «Il fattorino – spiega – non lavoravo in albergo, ma era qualcosa di simile allargato su vasta scala”. Si aiuta ancora a gesti, prova a spiegarci che la cosa aveva proporzioni diverse, e ci riesce perfettamente. “Il mio compito insieme al mio datore di lavoro era molto semplice, accoglievamo i turisti e ritiravamo i bagagli, li imbarcavamo e facevamo viaggi lunghi anche cento chilometri: i mezzi di locomozione dalle mie parti non sono sempre il massimo dell’efficienza e, a dirla tutta, a noi andava bene così, quello era il lavoro che ci dava da mangiare».
UN SORRISO SPENTO
Sorride poco, nemmeno quando proviamo a farci capire in un francese scolastico, lui che parla bene anche quella lingua, riusciamo a strappargli una risata. E’ però più sereno rispetto alle prime battute del racconto. Ma si incupisce Moustafa, lo abbiamo detto, la sua giovane vita ha subito più di qualche dramma. Non solo la perdita del papà. «Quando tutto sembrava filare liscio – riprende il racconto della sua vita – ecco un’altra tegola, pesante come un macigno: io e il mio titolare siamo vittime di un brutto incidente stradale, lui, poverino, muore sul colpo, io me la cavo, anche se mi porto dietro i segni di quell’altra brutta storia. Vengo soccorso, mi portano in un presidio sanitario, con una gamba in condizioni veramente disastrose, tanto che zoppico vistosamente; pronto soccorso, ospedale e clinica non fa molta differenza, per noi è la stessa cosa, è sempre un presidio sanitario: vengo soccorso, sottoposto a una operazione e riportato a letto, senza nemmeno avere il tempo di fare una rieducazione alla mia gamba ferita, una volta in piedi vengo accompagnato all’uscita: un modo elegante per dire che il loro lavoro, quello di operarmi e rimettermi in piedi, era finito lì».
E’ così, caro Moustafa. Ecco giustificata la mancanza di sorriso, anche se una volta presa un po’ di confidenza si rilassa. Si lascia perfino fotografare. «Non gioco più al calcio – dice, ma stavolta senza un velo di tristezza, e una ragione c’è, la trova subito – ma è il meno che potesse accadermi: non ho più mio padre, nell’incidente d’auto ho perso il mio titolare e a me poteva andare peggio, il giocare al calcio è solo un dettaglio: poi non ero quella che si dice “una promessa”; certo, a uno come me che ha cominciato a correre fin da piccolo, l’uso della gamba mi tornava utile, ma me ne farò una ragione: ricomincio daccapo».
DA UNA “COSTA” ALL’ALTRA
La Costa d’Avorio per Moustafa diventa un luogo dal quale andare via. «Non c’era lavoro – riprende – il governo nel frattempo aveva adottato politiche xenofobe: a discrezione di qualcuno tu potevi essere considerato ivoriano al cento per cento, per altri al contrario, non degno di appartenere al popolo eletto diventavi un perseguitato; non c’era altro da fare che andare via, scappare, ecco la necessità di avere l’uso delle gambe».
Prima di fuggire, meccanico e carrozziere. «Imparo in fretta – rivela – il lavoro e io ci inseguiamo, amo lavorare e, in particolare, lavorare sulle auto: da fattorino, nonostante la mia giovane età, conducevo il mezzo sul quale accompagnavo i turisti; ho imparato subito a guidare, poi ad appassionarmi al motore e tutto quello che c’era intorno, così mi sono ancora una volta rimboccato le maniche, ma non c’è stato tempo per mettere a punto tutte le auto che avrei voluto rigenerare, sono scappato via dalla Costa d’Avorio».
Di palo in frasca. «Arrivato in Libia sono stato circondato e gettato insieme con connazionali e altri fratelli africani in un capannone: un solo pasto al giorno e acqua salina da bere, qualcosa di vomitevole; e per quelle cosacce dovevamo accudire animali da cortile, tagliavamo erbacce e li sfamavamo: scappare, non potevamo farlo, poi nelle condizioni in cui ero io, con una gambia malconcia…». Prendevano botte ai fianchi, ma alla fine Moustafa ce l’ha fatta. «Non potevano tenerci in eterno lì, pochi soldi e abbiamo pagato un viaggio sul solito gommone: avvistati in alto mare da una nave italiana siamo stati accolti a bordo e accompagnati a Trapani: da lì a Taranto, nel Centro di accoglienza di “Costruiamo Insieme”, la mia terza media e, ora, studio ancora per conseguire un attestato da meccanico-carrozziere…».