Parlare è diverso da comunicare!
Il più piccolo della tribù (che a me suona meglio di “famiglia allargata” o “nuove tipologie relazionali” che è addirittura cacofonico) a pranzo ha manifestato il suo malessere provocato da uno stato che ha definito “solitudine”.
Messo a confronto con una situazione di questo tipo, seppure soggetto terzo ma coinvolto, ho sentito i brividi scorrere su tutto il corpo.
Abituato a giocare su tavoli di tutti i tipi con interlocutori istituzionali (Sindaci, Assessori, Prefetti, Questori, Parlamentari, ONG…) ho provato un senso di incapacità profonda a gestire una situazione che si materializzava al tavolo di casa, in quel privato che voglio rendere pubblico per condividerlo convinto che situazioni di questo tipo fanno parte del quotidiano di tante famiglie.
Se un tredicenne manifesta un disagio riconducendolo ad un senso di solitudine ti fa paura perché, oltre a restare senza risposte, inizi a chiederti dove hai sbagliato, cosa avresti dovuto fare che non hai fatto, cosa gli manca più di quello che ha.
E, istintivamente, cominci a cercare nel passato, a cercare l’origine di questo malessere cercando nel tuo atteggiamento i motivi di questo malessere manifestato perché emerge e irrompe una sorta di senso di responsabilità che riconduce a te ogni colpa.
E sono situazioni che ti rimettono in discussione: qualche giorno fa sono stato ospite e relatore in un convegno sulla genitorialità, oggi non mi viene fuori una parola?
Dentro casa mia? O una delle mie tante case?
“Mio” ho capito che è il problema primario nell’approccio al problema.
Forse è proprio da quella presunzione di “proprietà”, da quel “mio” che trova origine il problema.
Cosa è “mio”? Nulla!
Se penso a me e alla mia vita mi rendo conto di non essere stato mai di nessuno neanche da bambino!
E come potrei pretendere o pensare di fare il contrario, di ribaltare la situazione reinventandomi in un ruolo che non è mio e non mi appartiene?
La cosa bella che mi ha insegnato la vita (non la scuola o l’università! Mio padre si!) è quella di sapere usare gli strumenti: sapere senza sapere come usare il sapere non serve a nulla!
E’ come conoscere senza sapere come usare la conoscenza.
A parlare dei massimi sistemi siamo tutti bravi, io compreso, quando stanno lontani da casa nostra. E’quando ne devi discutere in casa che diventa un problema anche se, qualche ora prima, hai “dettato” a 200 persone il tuo pensiero sulle responsabilità genitoriali.
E hai raccolto anche tanti applausi!
Avendo un tarlo nella testa, una cosa che ti rigira nel cervello e ti distrae da ogni altra cosa, ho chiamato un caro amico, uno psichiatra, per chiedere consigli su come si fa.
La risposta mi ha illuminato e distrutto: mi conosce da tanti anni, abbiamo lavorato insieme e legge tutte le cose che scrivo.
“Sono più di vent’anni che vai in giro a dire che “parlare” è diverso da “comunicare” e mi hai tenuto al telefono mezz’ora per capire cosa devi fare?”.
Ergo, sono più bravo quando sto in giro che non quando sto in casa.
A parlare degli altri e ipotizzare soluzioni possibili (per gli altri!) è sempre più facile.
Sarà per questo che esco sempre presto da casa e torno sempre tardi?
“Cucciolo” (lo so che mi leggi sempre e questa parola ti fa incazzare!), domani ci prendiamo un pomeriggio e una serata tutta per noi e proviamo a vedere se, cazzeggiando, riusciamo anche a comunicare!