Youssef e Alì, marocchini, a Taranto per scelta

«Merito dei tarantini, generosi e rispettosi. Quattro anni fa arrivammo qui. Dormimmo per strada, poi in palestra. Molti nostri connazionali andarono via: non c’era lavoro, noi restammo, affascinati da sorrisi, strette di mano sincere e ospitalità. Non ci sbagliavamo…»

Incontrare Youssef, un marocchino, dopo quattro anni circa, da un brutto (o buono, punti di vista) giorno quando insieme con una cinquantina di connazionali pernottò a cavallo, fra un sabato e una domenica, fuori dalla stazione.

Quel giorno mostrava, orgoglioso, uno dei suoi pollicioni in su. In segno di vittoria, questo il ragazzo marocchino con un sorriso appena accennato, perché non sapeva ancora quale fosse il suo destina, e comunque la gioia nel cuore, mostrava grande ottimismo. «Il nostro sogno – spiega Youssef – era quello di fuggire dalla miseria, in molti casi alleggerire le famiglia da una bocca in più da sfamare e venire in Italia, ma anche nel resto d’Europa a cercare fortuna: qualcuno l’ha trovata, qualcuno no; molti hanno proseguito il loro cammino – quattro anni fa si potevano ancora superare i confini, non c’era la stessa ostilità o il rigore di oggi – chi in Germania, chi in Francia».

Lui, Youssef, si è stabilito a Taranto, ha trovato un lavoro. «Niente tappetti o, come dite da queste parti, “gratta-gratta” – anticipa eventuali domande il cittadino marocchino, “italiano di adozione” dice lui stesso – ho trovato lavori saltuari, prima come fattorino in una ditta di spedizioni, poi come dipendente in un supermercato; cose così, contratti brevi, perché di più non era possibile, ma mi è andata bene, specie alla luce di quanto successo in questi mesi con la paura del contagio da coronavirus: è stato un continuo sentirmi con i miei familiari che, dopo quattro anni, conto di raggiungere per pianificare meglio il nostro futuro: le condizioni per mettere radice, ci sono; anche la voglia di lavorare: ora lavoro in un ristorante, ci stiamo riprendendo poco per volta…».

CINQUANTA, UNA DOMENICA…

Ricorda i suo connazionali. «Cinquanta, più o meno, una all’esterno della stazione di Taranto: era una domenica. Qualcuno era lì da venerdì, altri da sabato; a poche centinaia di metri dal porto di Taranto, dall’hotspot realizzato appositamente per rilasciare un primo documento a quanti, migranti e con motivi diversi, erano arrivati sulle coste italiane: in maggior parte mei connazionali, poi egiziani e tunisini. Molti, anche di altra nazionalità, fuggiti dalla Libia, dove erano in atto conflitti spaventosi».

Poi, insieme con lui Alì. «Alcune donne furono assistite – ricorda il suo connazionale – ospitate nella palestra Ricciardi dal primo giorno; la struttura sportiva, meno male, la notte di venerdì al suo interno ne aveva accolti un’altra cinquantina, con un’ottantina è rimasta all’esterno». Anche Alì ricorda. «Alla stazione la Polizia di stato, un’ambulanza che prestava assistenza medica e tarantini, tanti tarantini, che a noi portavano casse d’acqua, alimenti per la colazione e il pranzo, quasi una corsa alla solidarietà: anche per questo sono rimasto a Taranto, i cittadini sono rispettosi e generosi, tanto che oltre all’assistenza ci hanno offerto, per quanto possibile, un lavoro».

«C’era anche il sindaco (Ippazio Stefàno, ndr) – ricorda ancora Youssef – per quelle decine di ragazzi seduti sui gradini, fra buste e casse d’acqua: mise a disposizione ancora la palestra. Alcuni lasciarono il palazzetto, altri li sostituirono per riposarsi e ristorarsi provvisoriamente».

C’è chi chiese alla Prefettura di Taranto un tavolo urgente per comprendere quali fossero stati criteri e strumenti giuridici adottati fra accoglienza e respingimento. E cosa si potesse fare per evitare che migranti, come quelle decine di ragazzi marocchini senza sostegno economico non restassero privi delle prime necessità.

CHIUSE SALA D’ATTESA E STAZIONE

«Stava diventando – ricorda – un problema anche la mancanza di servizi igienici; c’erano quelli della stazione, a un passo, ma chiudevano alle otto di sera; la sala d’attesa, per stare seduti, stendersi un po’, recuperare se possibile le forze, ma anche lì a mezzanotte in punto, anche quella chiudeva; io non ce la facevo più, ero a pezzi, salii sul primo bus urbano e mi recai alla Salinella; non c’erano posti per dormire, tutti occupati, così quella prima notte ripiegai all’esterno, all’aperto, al freddo».

Cosa ricorda dell’accoglienza, Alì. «Ragazzi di associazioni con cui sono rimasto in contatto, con il tempo siamo diventati amici: sorridevano, provavano a mescolare un po’ di italiano a un francese scolastico, proprio come ho fatto io con il vostro italiano: ci vuole quella pazienza – l’ho imparato qui – che è la virtù dei forti. Scambiammo numeri di cellulare, nel caso qualcuno si fosse per di vista: quei numeri li conservo ancora».

«Molti sono andati via – conclude Youssef – sapevano che questa è una città che non offre molto lavoro. Come me, erano a metà strada, fra la miseria e la speranza di un futuro migliore, se non altro lontano da guerre, conflitti e stenti». Quel pollice su e bene in vista, come a dire “Ok”, è un primo, timido segnale di ottimismo. Youssef e i suoi compagni ci avevano subito creduto.