Camillo Langone puntualizza l’origine del nostro vino
Quello doc, per noi, resta quello di Manduria. Ma il giornalista del “Foglio” ne ripercorre le tappe, attraverso letture e citazioni. E suggerisce “Primitivo. Il vino dei due mondi” di Antonio Calò e Angelo Costacurta
Oggi prendiamo spunto da un articolo di Camillo Langone, giornalista del Foglio. In punta di penna, un po’ provocatorio, un po’ generoso, interviene su una delle cose che ci stanno particolarmente a cuore, nonostante qualcuno negli anni, nel tempo, nei secoli, provi a spostare – come fossero pedine su uno scacchiere – la residenza del Primitivo. Il Primitivo doc è di Manduria, punto. Il classico gioco delle tre carte lasciatelo al Made in Taiwan.
Prima di Langone, ottimo il suo breve articolo-riflessione, cerchiamo di comprendere a quale libro il giornaliste del Foglio si sia in qualche modo ispirato: “Primitivo. Il vino dei due mondi” (Kellermann editore) di Antonio Calò e Angelo Costacurta.
Le note sul libro, intanto. Armonia, ordine, bellezza del paesaggio, qualità del vino, che nel caso del Primitivo si aggiungono ad un termine irrinunciabile: tradizione. Se il vino nasce dalla composizione delle vigne, dobbiamo considerare che i cambiamenti nell’ambito produttivo viticolo sono per natura lenti, legati al fatto che trentennale è la normale vita di un impianto. I trent’anni poi sono il seguito della tradizione mitigata da ponderata innovazione. Chi scelse il nome del Primitivo? La memoria, che è storia ed è anche leggenda, ci racconta di un religioso, appassionato di botanica, don Francesco Filippo Indellicati, di Gioia del Colle, la città pugliese a metà strada dallo Ionio all’Adriatico. Sul finire del Settecento individuò il vitigno, oggetto di scambio con la Costa orientale adriatica, confacente alla sua idea di rinnovamento viticolo. Un vitigno che fruttificava presto, primo a maturare. Nel 2000 Antonio Calò individuò il felice futuro del Primitivo, qualità emergente fra i rossi, accanto al Negroamaro, al Nero d’Avola e a pochi altri. E aveva ragione.
A PROVA DI INVASIONI…
«Le invasioni barbariche, i saraceni, la grande gelata del 1234 – scrive, invece Langone – la grande peste del 1348, i bruchi del 1504, i dazi francesi del 1887, e subito dopo la fillossera, il marciume, le crittogame, e spesso il dramma della siccità… Anziché andare al Vinitaly leggo “Primitivo. Il vino dei due mondi” (Kellermann editore) di Antonio Calò e Angelo Costacurta, una storia del vitigno omonimo e del vino pugliese tutto, dove si capisce come la vigna sia un patema continuo».
Riprende, il giornalista nella sua breve, rispettabile riflessione. «Ovunque, ma intorno a Bari di più. Io poi alle piaghe materiali aggiungo più recenti piaghe morali come la piaga della barrique, la piaga dello chardonnay, la piaga della vendemmia tardiva (degna di palati asiatici, come nel libro coraggiosamente nota il produttore Gregory Perrucci), la piaga delle razzie dei grandi gruppi del centro-nord nei confronti delle cantine del sud e ora la piaga del rosé finto-provenzale…». E così via, come non condividerne il senso.
E per finire. «Oltre al riscaldamento globale, piaga appunto planetaria ma che sulle rive del Mediterraneo è peggio – conclude Camillo Langone del Foglio – Ogni volta che trovo un buon vino pugliese mi domando: come ha fatto questo vignaiolo a vincere tante avversità e tante pressioni? Forse è la sovrannaturale protezione fornita dal prete di Gioia del Colle, don Francesco Filippo Indellicati, che a fine Settecento scoprì un vitigno senza nome: era il primo a maturare, lo battezzò Primitivo».