La comunità cingalese a Taranto, sui fatti del 21 aprile scorso

«Non sappiamo spiegarcelo», dicono Niroshan e Ann, cristiani, impegnati nella preghiera con i loro connazionali Nalaka, Tenison, Claris, Rupika, Shantha e Pavan. «La vita è un dono di Dio, non si può farne un uso sconsiderato, aggiungendo dolore ad altro dolore». Ogni settimana Santa messa al SS. Crocifisso e alla Madonna delle Grazie. «Quel giorno abbiamo acceso candele e ci siamo a lungo raccolti in preghiera per le vittime del terrorismo»

«E’ accaduto a sette minuti di strada da casa mia, non lontana dal santuario di Sant’Antonio, dove normalmente si recano a pregare mio figlio Gayesh, venti anni, e mia sorella!». Niroshan, cingalese, quarantotto anni, casa a Colombo, capitale commerciale ed economica dello Sri Lanka presa di mira da un ampio commando kamikaze, non sa darsi pace. Da anni in Italia, prima a Venezia, impiegato in un albergo, oggi a Taranto, impegnato con una società di pulizie e in uno studio notarile, spiega l’incubo vissuto quel maledetto 21 aprile. «Mi ero appena svegliato, quando mi hanno avvisato su quanto stesse accadendo: non era stata ancora realizzata l’entità di danno e dolore, le notizie si rincorrevano, non mi restava che pregare, io che ho una grande fede cristiana ho sperato fino all’ultimo momento che i danni provocati fossero soltanto alle cose e non alle persone».

Invece, tre chiese, quattro alberghi di lusso e un complesso residenziale. Questi gli obiettivi dell’azione terroristica suicida che ha provocato, secondo fonti governative, la morte di 253 innocenti la mattina del 21 aprile proprio a Colombo, la città di Niroshan, il giorno in cui veniva celebrata la Pasqua cristiana. Una strage che non sarà mai dimenticata da un popolo, quello cingalese, rispettoso verso fedi diverse: buddista, hindu, musulmana, cristiana.

Prima esplosione presso il santuario di Sant’Antonio, nel sobborgo di Kotahena, poco lontano da Colombo «Anni fa era stato in visita Giovanni Paolo II», ricorda Niroshan. Le chiese di San Sebastiano di Negombo e di Sion, fra gli altri obiettivi. Distrutti dalla furia kamikaze anche tre alberghi di lusso: lo Shangri-La Hotel, il Cinnamon Grand Hotel e il The Kingsbury, e il complesso residenziale seguite da un’altra esplosione presso la Tropical Inn.STORIE Articolo 03«Lo stesso giorno ci siamo raccolti in preghiera – ricorda Ann, ventisette anni, studi in ragioneria ed economia aziendale, a Taranto da dieci anni con mamma Mala e papà Kingley – mia madre era già in chiesa, come ogni domenica: la comunità cingalese di fede cristiana presente a Taranto, si riunisce per partecipare alla Santa Messa, una volta al SS. Crocifisso, una volta alla Madonna delle Grazie; ogni due settimane don Shehan, anche lui cingalese, arriva da Roma: quel 21 aprile era già a Taranto, stava celebrando la Settimana Santa con una serie di funzioni religiose; dopo quelle notizie tremende, stretti nel dolore, abbiamo acceso candele e recitato preghiere in memoria delle vittime di una strage inspiegabile: qualsiasi cosa provochi dolore, a se stessi e al prossimo, è inspiegabile; la violenza è un fatto inspiegabile».

Nalaka, Tenison, Claris, Rupika, Shantha, Pavan, Iranga e tanti altri non hanno mai smesso di pregare con don Sheran e padre Francesco del SS. Crocifisso, la chiesa nella quale la comunità cristiana cingalese è ospite. «Ho continuato a vivere l’incubo per ore – ricorda  ancora Niroshan – seguendo prima i canali youtube, poi i notiziari Rai e Sky: il tempo passava e non riuscivo a mettermi in contatto con mio figlio Gayesh; dov’ero io in quel momento non c’era campo, mentre a Colombo le esplosioni avevano messo fuori uso i sistemi di comunicazione; poi la schiarita, se così vogliamo chiamarla: a casa tutto bene, ma le immagini non davano scampo al dolore, la sciagura era un continuo susseguirsi di numeri: dieci, cinquanta, cento, duecento, trecento morti!». Qualcuno era arrivato a ipotizzare mille vittime. Ma mille, cento, cinquanta, dieci, uno solo, gli stessi ragazzi del commando suicida, chiunque non fosse più in vita provocava dolore. «La vita è un dono di Dio – dice Ann – non si può farne un uso sconsiderato, aggiungendo dolore ad altro dolore; la notizia di quanto stesse accadendo il giorno di Pasqua,  l’ho vissuta attraverso due amici: una telefonata dietro l’altra, un mio connazionale a dirmi che c’erano stati attentati, ma non se ne conosceva la proporzione; un altro amico milanese, subito dopo, invece mi aveva aggiornato sul dramma abbattutosi nelle tre chiese di Colombo, una sciagura costata la vita a centinaia di anime innocenti: poi i messaggi su Viber, il nostro gruppo social, e le immagini che non lasciavano scampo; sul mio cellulare vedevo di tutto, non riuscivo a piangere, tanto ero incredula, pensavo fosse un incubo…».
STORIE Articolo 02«Non sappiamo spiegarcelo», dicono Niroshan e Ann, cristiani, impegnati nella preghiera con i loro connazionali Nalaka, Tenison, Claris, Rupika, Shantha e Pavan. «La vita è un dono di Dio, non si può farne un uso sconsiderato, aggiungendo dolore ad altro dolore». Ogni settimana Santa messa al SS. Crocifisso e alla Madonna delle Grazie. «Quel giorno abbiamo acceso candele e ci siamo a lungo raccolti in preghiera per le vittime del terrorismo»

«E’ accaduto a sette minuti di strada da casa mia, non lontana dal santuario di Sant’Antonio, dove normalmente si recano a pregare mio figlio Gayesh, venti anni, e mia sorella!». Niroshan, cingalese, quarantotto anni, casa a Colombo, capitale commerciale ed economica dello Sri Lanka presa di mira da un ampio commando kamikaze, non sa darsi pace. Da anni in Italia, prima a Venezia, impiegato in un albergo, oggi a Taranto, impegnato con una società di pulizie e in uno studio notarile, spiega l’incubo vissuto quel maledetto 21 aprile. «Mi ero appena svegliato, quando mi hanno avvisato su quanto stesse accadendo: non era stata ancora realizzata l’entità di danno e dolore, le notizie si rincorrevano, non mi restava che pregare, io che ho una grande fede cristiana ho sperato fino all’ultimo momento che i danni provocati fossero soltanto alle cose e non alle persone».

Invece, tre chiese, quattro alberghi di lusso e un complesso residenziale. Questi gli obiettivi dell’azione terroristica suicida che ha provocato, secondo fonti governative, la morte di 253 innocenti la mattina del 21 aprile proprio a Colombo, la città di Niroshan, il giorno in cui veniva celebrata la Pasqua cristiana. Una strage che non sarà mai dimenticata da un popolo, quello cingalese, rispettoso verso fedi diverse: buddista, hindu, musulmana, cristiana.

Prima esplosione presso il santuario di Sant’Antonio, nel sobborgo di Kotahena, poco lontano da Colombo «Anni fa era stato in visita Giovanni Paolo II», ricorda Niroshan. Le chiese di San Sebastiano di Negombo e di Sion, fra gli altri obiettivi. Distrutti dalla furia kamikaze anche tre alberghi di lusso: lo Shangri-La Hotel, il Cinnamon Grand Hotel e il The Kingsbury, e il complesso residenziale seguite da un’altra esplosione presso la Tropical Inn.
STORIE Articolo 01«Lo stesso giorno ci siamo raccolti in preghiera – ricorda Ann, ventisette anni, studi in ragioneria ed economia aziendale, a Taranto da dieci anni con mamma Mala e papà Kingley – mia madre era già in chiesa, come ogni domenica: la comunità cingalese di fede cristiana presente a Taranto, si riunisce per partecipare alla Santa Messa, una volta al SS. Crocifisso, una volta alla Madonna delle Grazie; ogni due settimane don Shehan, anche lui cingalese, arriva da Roma: quel 21 aprile era già a Taranto, stava celebrando la Settimana Santa con una serie di funzioni religiose; dopo quelle notizie tremende, stretti nel dolore, abbiamo acceso candele e recitato preghiere in memoria delle vittime di una strage inspiegabile: qualsiasi cosa provochi dolore, a se stessi e al prossimo, è inspiegabile; la violenza è un fatto inspiegabile».

Nalaka, Tenison, Claris, Rupika, Shantha, Pavan, Iranga e tanti altri non hanno mai smesso di pregare con don Sheran e padre Francesco del SS. Crocifisso, la chiesa nella quale la comunità cristiana cingalese è ospite. «Ho continuato a vivere l’incubo per ore – ricorda  ancora Niroshan – seguendo prima i canali youtube, poi i notiziari Rai e Sky: il tempo passava e non riuscivo a mettermi in contatto con mio figlio Gayesh; dov’ero io in quel momento non c’era campo, mentre a Colombo le esplosioni avevano messo fuori uso i sistemi di comunicazione; poi la schiarita, se così vogliamo chiamarla: a casa tutto bene, ma le immagini non davano scampo al dolore, la sciagura era un continuo susseguirsi di numeri: dieci, cinquanta, cento, duecento, trecento morti!». Qualcuno era arrivato a ipotizzare mille vittime. Ma mille, cento, cinquanta, dieci, uno solo, gli stessi ragazzi del commando suicida, chiunque non fosse più in vita provocava dolore. «La vita è un dono di Dio – dice Ann – non si può farne un uso sconsiderato, aggiungendo dolore ad altro dolore; la notizia di quanto stesse accadendo il giorno di Pasqua,  l’ho vissuta attraverso due amici: una telefonata dietro l’altra, un mio connazionale a dirmi che c’erano stati attentati, ma non se ne conosceva la proporzione; un altro amico milanese, subito dopo, invece mi aveva aggiornato sul dramma abbattutosi nelle tre chiese di Colombo, una sciagura costata la vita a centinaia di anime innocenti: poi i messaggi su Viber, il nostro gruppo social, e le immagini che non lasciavano scampo; sul mio cellulare vedevo di tutto, non riuscivo a piangere, tanto ero incredula, pensavo fosse un incubo…».
STORIE Articolo 04Amici e parenti di Ann. «Era un continuo sentirsi al telefono, “Vogliamo venire in Italia!”, mi ripetevano i parenti dallo Sri Lanka, come se fosse ripresa quella tremenda guerra finita dieci anni fa, un conflitto costato migliaia e migliaia di vite umane». Quel triste 21 aprile insiste nel cuore e nelle coscienze. Non è finito. «Non può finire – dicono i cristiani cingalesi – quanto accaduto è di proporzioni disumane: gli stessi attentati sono generati da vicende disumane; continuiamo a pregare, come sempre, non solo la domenica, ma anche gli altri giorni: lo scorso 10 marzo ci siamo recati in tanti a San Giovanni Rotondo a rivolgere una preghiera anche a Padre Pio; per noi la preghiera è indispensabile, come l’amore per il prossimo: siamo tutti fratelli, lo sono anche quanti hanno abbracciato altre religioni; per questo continuiamo a domandarci, senza saperci dare risposta, perché è accaduto tutto questo!».

Amici e parenti di Ann. «Era un continuo sentirsi al telefono, “Vogliamo venire in Italia!”, mi ripetevano i parenti dallo Sri Lanka, come se fosse ripresa quella tremenda guerra finita dieci anni fa, un conflitto costato migliaia e migliaia di vite umane». Quel triste 21 aprile insiste nel cuore e nelle coscienze. Non è finito. «Non può finire – dicono i cristiani cingalesi – quanto accaduto è di proporzioni disumane: gli stessi attentati sono generati da vicende disumane; continuiamo a pregare, come sempre, non solo la domenica, ma anche gli altri giorni: lo scorso 10 marzo ci siamo recati in tanti a San Giovanni Rotondo a rivolgere una preghiera anche a Padre Pio; per noi la preghiera è indispensabile, come l’amore per il prossimo: siamo tutti fratelli, lo sono anche quanti hanno abbracciato altre religioni; per questo continuiamo a domandarci, senza saperci dare risposta, perché è accaduto tutto questo!».