Awal, dal Benin con affetto

«Cercavo rispetto, l’ho trovato in Italia. L’altra espressione, quando è sincera, è “fratello”, mi viene da piangere per l’emozione. Ho lasciato mamma e due sorelle, mio fratello è commerciante in Algeria. In novantadue su una imbarcazione, dopo dieci ore di mare, una nave militare italiana…»

«“Per favore…”, è la frase più bella, dopo l’aver sentito un uomo di pelle bianca chiamarmi “fratello”: e non per scherzare o prendermi un po’ in giro come fa qualcuno pensando di farti sorridere; “Per favore…”, anche sul posto di lavoro – nonostante  una cosa sia dovuta, ti compete – c’è il collega che ti chiede se puoi farlo, “Per favore…”».

Meno di trent’anni, beninese, un sorriso contagioso unito a un sospiro di sollievo, Awal non ama tanto raccontarsi, ma comprende che la sua storia, forse simile a tante altre, può essere d’esempio. Per molti italiani, ma anche per molti suoi “fratelli”, venuti in Italia o, comunque, in Europa per cominciare una nuova vita, posto che quella precedente, dalla quale sono fuggiti, fosse degna di essere chiamata vita.

Di cose Awal ne ha da raccontare. Come la fuga del suo Paese dove un conflitto tira l’altro. «Convivi con le urla, colpi di pistola o fucile e bombe, e non sai mai chi ha sparato e chi ha fatto saltare per aria qualcuno o qualcosa: come se camminassi su un campo minato». Brutta sensazione. «Ti svegli al mattino – racconta – ammesso che abbia dormito la notte, perché certi armati fino ai denti, con le armi in pugno possono entrarti in casa, minacciarti, svuotarti le tasche, picchiarti e farsi consegnare del denaro: dormi, dunque, con un occhio aperto, mai tre, quattro ore di sonno di seguito… Ti svegli, dicevo, esci di casa e non sai mai se farai ritorno, perché può succederti di tutto e la sensazione è una brutta sensazione: puoi essere centrato da un proiettile vagante, un colpo di fucile di rimbalzo, mettere un piede su una bomba inesplosa e saltare per aria».

Convivere con il terrore deve essere terribile. «Non sei più tu, pensi di essere un essere – non c’è altra definizione – che può essere cancellato da un momento all’altro, ecco perché la fuga dal Benin, quando mi è toccato prender una decisione dolorosa e andare via: non è stato facile comunicarlo a mia madre e alla mie due sorelle, un fratello che raggiungerò più avanti, è già andato via di casa, ha una piccola attività in Algeria».

Dolorosa, forse anche più. «Quando ad una famiglia viene a mancare l’uomo e cioè, mio padre non c’è più, mio fratello è stato il primo dei figli ad andare via, e io sto per seguire il suo esempio, crolla il mondo addosso: tre donne sole, indifese – anche  se c’è la vicinanza dei familiari – è qualcosa che non auguro a nessuno, nemmeno al mio peggior nemico, e di nemici, nel tempo, io come molti amici, ne abbiamo avuti».

Awal parla del suo Benin, della sua fuga, d’un tratto si fa serio, perde quel sorriso. «Non conosco gente – spiega – nel mio Paese come ovunque, in Africa, che scappi dalla propria terra perché sta bene: questo vorrei che la gente comprendesse, se andiamo via c’è un motivo. E forse anche più di uno: viviamo male,  c’è chi ha forza e coraggio, come me, e allora prende quella poca roba della quale dispone ancora e va via; altri, loro malgrado, restano, perché hanno paura e non sanno cosa possa riservargli una fuga: sulla strada della fuga puoi trovare qualsiasi imprevisto, mai qualcosa di buono, sempre brutte sorprese: bande di malviventi, milizie, militari, tanto che per bene che ti vada ti mettono sotto sequestro: ti obbligano a telefonare ai tuoi familiari per farti mandare soldi per pagarti il riscatto».

La fuga, il lavoro. «In Algeria ho lavorato un po’ di mesi con mio fratello: potevo restarmene con lui, l’ospitalità è sacra, ma io volevo l’Africa volevo lasciarla: quando mi sono fatto coraggio e ho preso la decisione più importante della mia vita, cioè fuggire, mi sono posto quale unico obiettivo lasciare il mio Continente».

«Con mio fratello ho lavorato il necessario per mettere insieme un po’ di soldi per pagarmi il viaggio. Lui ha un commercio di abbigliamento, fa tutto lui: fa il sarto, confeziona abiti, li vende; non è proprio come in Europa, dove ognuno fa il suo, la fabbrica confeziona e il commerciante vende: da noi improvvisiamo in tutto».

Novantadue imbarcati. E’ strano, secondo qualcuno, come i ragazzi ricordino perfettamente il numero di passeggeri che prendono posto su una imbarcazione. Esiste una spiegazione. «Uno, due giorni prima, dicono che tocca a te: tu arrivi lì e ti fanno segno che puoi accomodarti: cammini su un pontile stretto, sotto gli occhi di tutti e lì, l’uomo che sarà alla guida dell’imbarcazione, comincia a contare: uno, due, tre e via di questo passo: novantadue imbarcati; dodici ore di mare e, fortuna delle fortune, intercettiamo una nave militare italiana che ci accompagna ad Agrigento; quattro giorni in Sicilia, poi il trasferimento a Taranto in un Centro di accoglienza, che non era ancora “Costruiamo Insieme”. Nel frattempo ho studiato e conseguito il mio titolo di studio: oggi ho da dormire, mangiare, un mio lavoro, risparmi, una vita sociale, credo che tutto questo possa considerarlo un buon inizio, ho realizzato buona parte dei miei sogni: se ci saprò fare non potrò che essere più felice».