Chinyere, diciotto anni, nigeriano
«Una famiglia decimata dalla violenza, ho visto morire tre fratelli sotto i miei occhi; scudisciate da mio zio, dai miei carcerieri e dai miei “padroni”. Poi in Libia, un carceriere mi libera e un uomo, in cambio di lavoro, mi mette a bordo di un gommone: tanta paura!». Moglie e figlio attendono sue notizie.
«Cresciuto a pane e frustate, più frustate che pane!», racconta Chinyere, nigeriano, diciotto anni, sposato, padre di un bimbo. Una famiglia sterminata da una cattiveria indescrivibile. «Tre fratelli, trattati allo stesso modo, morti ammazzati, avvelenati, evidentemente diventati un peso, erano tre bocche da sfamare e a mio zio, che ci dava da mangiare in cambio del nostro lavoro, non andava più bene…». Le frustate, da giovanissimo, sono state il pane quotidiano di Chinyere: le ha prese dallo zio, dai libici che lo hanno imprigionato, dal datore di lavoro al quale veniva quotidianamente consegnato, come fosse un pacco, per svolgere qualsiasi cosa: raccolti nei campi, pitturazione di case, edifici e così via. Ovunque ci fosse da spezzarsi la schiena, Chinyere era lì. E se per un giorno sul posto di lavoro non aveva incassato frustate, al ritorno dai campi una robusta razione di scudisciate gliela riservava lo zio. Insomma: dolore e cicatrici, a prescindere. «Era il suo modo per mettere le cose in chiaro: qui comando io – diceva – devi respirare solo se ti autorizzo!».
Moglie e figlio di Chinyere sono rimasti a casa, attendono sue notizie. Lui è appena arrivato in Italia, da una manciata di giorni, ha fretta di sentire i suoi congiunti (non ha ancora un cellulare) e di imparare l’italiano. «Giro per strada– dice – avverto una sensazione di isolamento, non posso parlare con la gente di qua, non mi allontano dal Centro di accoglienza, diventerebbe complicato chiedere una informazione per tornare nel posto in cui sono ospite». Ci pensa Abdoullah, uno degli operatori di “Costruiamo Insieme” a fare da interprete, a trovare le parole giuste per raccontare la storia di questo ragazzo, diventato grande per forza di cose. «Mi hanno insegnato che le parole vanno misurate», spiega Chinyere, «basta dirne una al momento sbagliato ed è la fine; oggi cerco quella da pronunciare al momento giusto, perché la mia vita adesso comincia a prendere una piega diversa da quella che andava assumendo nella mia Nigeria».
UNICA LEGGE: LA VIOLENZA
«Andavo a scuola – riprende – frequentavo le medie, poi, giovanissimo, ho dovuto abituarmi alla schiavitù; funzionava così: la mattina mi svegliavo prestissimo, subito al lavoro, c’era chi aveva bisogno di braccia per i campi, rimettere a posto casa, mio zio aveva contrattato il mio impegno giornaliero».Chinyere pensa di farla finita, per lui quella non è vita. Lui e i fratelli erano come un pegno nelle mani dello zio. Questioni di eredità. L’unica legge, lì, è la violenza, non hanno di che sfamarsi, vanno a vivere con quel parente scomodo e violento. «Non ci ha mai voluto bene – ricorda – siamo stati trattati come schiavi, eravamo la sua fonte di guadagno; alla fine, quando siamo diventati un peso, è successo qualcosa di tremendo: uno dopo l’altro, i miei fratelli si ammalavano e morivano; scoprii che quanto mangiavamo era contaminato, avvelenato; li ho visti esalare l’ultimo respiro sotto i miei occhi».Quando Chinyere capì cosa stesse accadendo, cominciò a rifiutare il cibo. E, tanto per cambiare, giù frustate. Fino a quando non prese il coraggio a due mani. «Morire lì o lontano da casa, era la stessa cosa, tanto rischiare la fuga; ci riuscii, ma non mi andò certamente meglio quando arrivai in Libia: io e altri in fuga dalla Nigeria, fummo accerchiati, fatti prigionieri e reclusi in un campo; ci svuotavano le tasche alla ricerca di denaro, ma non avevamo niente, fino a quel momento ci eravamo sfamati con quello che trovavamo per strada, ci offriva qualcuno di buon cuore in cambio di un lavoretto; non avendo soldi, dunque, per i libici che ci tenevano sotto chiave diventammo mano d’opera: al mattino ci consegnavano al migliore offerente, nostro datore per un giorno; dovevamo imparare in fretta un mestiere, altrimenti erano guai: mi specializzai nella pitturazione, tanto che avevo richieste, ma, niente soldi, a fronte del lavoro che svolgevo avevo in regalo praticamente un giorno di vita in più insieme con una razione di cibo».
IL MARE, UNICA VIA DI SALVEZZA: BERE O AFFOGARE…
Una prigionia, fino a quando uno dei suoi aguzzini, si mosse quasi a compassione. «Mi vide stanco, ferito, mi indicò l’uscita della prigione e fece cenno di andare via: se ce l’avessi fatta a sopravvivere, tanto meglio per me…». Chinyere, poco per volta, si riprese, si rimise in sesto e, in qualche modo, sul mercato. «Per un tozzo di pane ero disposto a fare qualsiasi mestiere, era la sola cosa che potesse tenermi in vita: un uomo si prese cura di me, lavorai anche per lui, finalmente senza frustate, il tempo che riteneva giusto per assicurarmi in cambio un viaggio per l’Italia; un viaggio su uno dei tanti gommoni, “bagnole” che imbarcavano acqua e profughi; trovai posto con altri centocinquanta, una quantità enorme: non esistevano altre vie di fuga, come dire “bere o affogare”».
Quella “camera d’aria” era una scommessa. «Non c’era altra soluzione, imbarcarci o restarcene in Libia, a spezzarci la schiena per una razione di cibo, prendere botte, a fare da tiro a segno a bande di ragazzini armate fino ai denti; così, ringraziai, chi mi aveva fatto lavorare in cambio di quell’occasione e pregai il cielo che quello non fosse l’ultimo viaggio».
Chinyere con i centocinquanta amici di sventura, ci prova. «In mare aperto, onde impressionanti, sbattuti come canne al vento, mai vista una cosa simile; in quelle condizioni non avevamo scampo, solo un miracolo poteva salvarci: anche se sai nuotare dove vai? Veniamo presi a bordo da una nave mercantile tedesca, fine dell’incubo. Se ci penso, oggi, mi viene una paura matta: non lo rifarei, se non sapessi come è andata a finire».