Mazu, in Italia da cinque anni

Trent’anni, maliano, di fede musulmana, dal primo giorno ha solo avuto in testa l’Italia e Taranto. «Qui mi sono trovato subito bene. Ogni tanto qualche frase un po’…così, ma con tutti i tarantini ho un buon rapporto. Conosco perfino le loro espressioni. Un lavoro, non stabile, purchè riesca a sostenermi da solo: non voglio regali, né stare con un cappello davanti a bar o supermercati»

Un lavoro, anche modesto. Stare con un cappello davanti a un bar o un supermercato, nemmeno a parlarne. Orgoglio e dignità. Muza, maliano, trent’anni, fede musulmana, ha nella mente pochi, ma sicuri obiettivi. Intanto restare in Italia. Perfezionare il suo italiano, oggi, non solo accettabile, ma ottimo.

Lo avevamo conosciuto qualche anno fa. Ragazzo vivace, uno di quelli che ha chiaro in testa «cosa fare da grande». Ce lo disse lui stesso all’epoca, lo conferma a distanza di tempo da quella chiacchierata nella quale si spiegò ai connazionali, agli agenti di polizia locale, che presidiavano un improvvisato sit-in. «Oggi non lo rifarei – spiega – per molte ragioni: la prima delle quali è il sentirmi come se fossi a casa: non che nel mio villaggio, in Mali, avessi chissà quali comodità, ma quella forma di protesta, che poi protesta non era, non la ripeterei; con i miei amici venuti dal Nord Africa in cerca di speranza, ci sentivamo isolati, quasi lasciato soli al nostro destino: evidentemente se sono ancora qui non sono stato abbandonato, anzi, sono stato seguito perché godessi di ospitalità e rispetto, due princìpi dietro ai quali sono andato dal giorno in cui mi sono messo in viaggio per l’Italia».

Taranto è la sua città. «La vivo come può viverla uno straniero come me – dice Mazu – che non può passare inosservato, intanto per il colore della sua pelle, poi per qualche cittadino – ma poca cosa, sento di essere benvoluto, rispettato, dalla stragrande maggioranza dei tarantini – che ogni tanto si lascia andare a qualche battuta un po’ fuori dal seminato».

PROVAVO A NASCONDERMI…

Un esempio, una frase. «I primi tempi – ricorda – camminavo per strada accanto ai muri, cercavo in tutti i modi di passare inosservato, come se andassi di fretta, anche se non avevo nella testa un posto in cui sarei dovuto andare. Eppure, dico eppure, ma è una sciocchezza, c’era sempre qualcuno che trovava il sistema per cambiarmi l’umore, ma anche quella è stata una scuola, la tolleranza è una delle cose più sagge che uno straniero deve imparare: sorvolare, non dare retta al peso di una frase rispetto alle decine di incoraggiamento che incassavo da mattina a sera».

Certo che il trentenne maliano sa creare aspettativa. Fosse uno scrittore, sarebbe un giallista. Sa far montare l’interesse, prima di arrivare al nocciolo. Mazu, forza, la frase.

«“Tornatene a casa!”. Potevi avere incontrato amici  per strada, al bar, al supermercato, quella frase mi faceva star male: ecco la saggezza di cui parlavo, quella è arrivata poco per volta, alla fine ho anche compreso il risentimento di quei pochi che non vedevano di buon occhio la mia presenza e quella dei miei fratelli nordafricani a Taranto. Oggi è diverso, lo devo intanto al mio impegno: volevo imparare, e presto, l’italiano. Diventare un giorno dopo l’altro padrone della lingua e delle espressioni locali, aiuta, e tanto anche: ho tanti amici tarantini e tante volte quando batto un colpo a vuoto con il lavoro, sono loro stessi che mi aiutano».

La tua storia, il suo chiodo fisso. «Non voglio essere “un profugo”, voglio avere un nome, un cognome, una nazionalità: è per questo che mi sono battuto dal primo giorno che sono venuto in Italia, voglio avere le stesse occasioni che hanno gli altri; se ne fallissi anche una sola, rispeditemi a casa. Qualche mio connazionale era di passaggio, altri, invece, avevano scelto di restare in Italia. Io l’avevo già nella testa e nel cuore: con Taranto è stato amore a prima vista».

E’ in città da cinque anni. E conta di non trasferirsi altrove. «Mi trovo bene a Taranto – dice Muza – se non fosse che devo fare i conti con il lavoro, poco a dire il vero, ma so accontentarmi, potrei dire che sono ampiamente soddisfatto di come siano andate le cose».

POI GLI AMICI, L’ITALIANO…

Muza ha imparato bene l’italiano. Lui, come molti dei profughi viene dal Nord Africa, Paesi francofoni. Dunque, oltre al suo dialetto, parla il francese, mostra padronanza della lingua italiana. E da un po’, lo dice lo stesso interessato, conosce le «espressioni locali». «Non le parolacce – puntualizza, ride – ma le espressioni a voce alta, quando il tarantino saluta, ti dice di scansarti, di parlare a voce bassa: questione di gesti, li ho imparati di corsa e, ogni volta, è un bel ridere».

Taranto nel cuore, Muza. «Mi sono trovato subito bene – confessa – per l’accoglienza e l’affetto che tutti mi hanno dimostrato; per questo ho pensato che forse non sarebbe stata un’idea sbagliata quella di restare in questa città: ripeto, ho trovato gente di sani principi, che ha subito compreso la mia condizione».

Chi ha lasciato nel suo Paese. «Non ho genitori – racconta – lì ho lasciato il mio unico affetto, una sorella di sedici anni; farla venire qui? Non credo proprio, non vuole saperne di venire e ho grande rispetto della sua volontà anche se mi manca: è lei metà della mia famiglia».

Lavoro, Muza puntualizza, a scanso di equivoci. «Per lavoro non intendo stare con il cappello davanti a un esercizio commerciale o un supermercato, a dire “buongiorno” o “buonasera”; non lo farei mai, non ce l’ho chi lo fa, ma io sono abituato a guadagnare con il sudore della fronte; dal primo giorno ho voluto lavorare e guadagnare: non tanto, ma il giusto, quanto possa permettermi di sostenermi da solo, mangiare e dormire; migliorare, se possibile, la mia condizione, senza fare ricorso a uno di quegli assegni del governo; sono venuto in Italia per farmi una nuova vita, quella vissuta dalle mie parti non era degna di questo nome».