Pare che un cartello fosse solo un pretesto

Prima il Corriere di Torino, poi Il Fatto, piombano su un malcostume adottato da esercenti e commercianti. Mentre un titolare lanciava l’appello, il suo personale licenziato si è rivolto alla stampa

Non tutto è oro quello che luccica. Mai fermarsi alla prima impressione, al primo titolo ad effetto della serie “Chiudo per mancanza di personale”. Facile fare un cartello, apporlo sulla porta d’ingresso e scatenare una eco mediatica non indifferente. “In Italia non vuole più lavorare nessuno!”, il primo commento di chi si ferma al solo titolo-civetta. Ma, si diceva, non sempre le cose stanno come sono dipinte. I colori non sono quelli che appaiono al primo sguardo. E, allora, se il titolare di un ristorante denuncia di chiudere il suo locale per mancanza di personale, attenzione, dietro può esserci un’altra storia.

Come quella riportata dal Corriere di Torino (allegato del Corriere della Sera) e ripresa da Charlotte Matteini per Il Fatto Quotidiano, giornale attento più di altri a quei dettagli che, in realtà, fanno la differenza. E che differenza.

«Il Corriere Torino – scrive la giornalista – ha dedicato un articolo al ristoratore che raccontava di essere costretto a interrompere l’attività perché non riusciva ad assumere: tra i commenti al post diffuso sui social dalla testata sono però apparse una serie di testimonianze di suoi ex dipendenti; uno stato lasciato a casa il giorno prima: “Mi hanno detto che avrebbero chiuso una o due settimane per fare dei lavori”. Un’altra sarebbe stata licenziata a dicembre 2021 causa calo del fatturato dell’altro dei due locali dello stesso imprenditore».

Foto Il Giornale Del Cibo

Foto Il Giornale Del Cibo

«CHIUDO BOTTEGA»

«Non riesco ad assumere, quindi chiudo bottega», scriveva su un cartello in bella vista il ristoratore-proprietario di un locale. Raccontava di essere stato costretto a chiudere temporaneamente la propria attività dopo poco meno di sei mesi per mancanza di personale. «Eppure, garantiva il titolare, il menù in busta paga è più che dignitoso: 1.700 euro (netti) al mese, per 12 mensilità, per cuoco e aiuto cuoco, e 1.400 euro per cameriere di sala», riportava l’articolo, rimarcando che a un mese dalla pubblicazione degli annunci nessuno si era presentato per un colloquio.

«Tra i commenti al post diffuso sui social dal Corriere di Torino – specifica Il Fatto Quotidiano – sono però subito apparse una serie di testimonianze che raccontavano l’altra faccia della medaglia: quella dei lavoratori, in questo caso degli ex dipendenti del ristoratore, proprietario di due ristoranti a Torino». «Ho mandato un curriculum in risposta a un annuncio di lavoro pubblicato per l’altro ristorante di Rostagno, Le Fanfaron Bistrot, che cercava un capo partita ai primi di cucina piemontese, ben diverso dal lavorare il pesce come poi sono finito a fare durante la prova – racconta Paolo a ilfattoquotidiano.it – Io avrei dovuto prendere in gestione il locale dopo una settimana di prova in affiancamento, regolarmente contrattualizzata. Prendere in gestione significa che praticamente avrei dovuto fare tutto da solo, dal lavare i piatti alla cucina vera e propria. Il contratto? Un sesto livello del Ccnl dei pubblici servizi, con qualifica di aiuto cuoco».

Foto Roma Today

Foto Roma Today

DIPENDENTI IMBUFALITI

Ma sono vari i dipendenti che hanno pubblicamente contestato il racconto del ristoratore diffuso dal quotidiano, scrive ancora Charlotte Matteini, una donna ha lavorato per oltre due anni in quel locale. Prima del lockdown, scrive, il titolare applicava effettivamente i contratti come da normativa e retribuiva le ore di straordinario che i suoi dipendenti facevano e segnavano timbrando il cosiddetto cartellino: tutto cambia con l’arrivo della pandemia, i dipendenti finiscono in cassa integrazione e il ristorante riapre poco per volta con l’asporto e via via con tutto il resto del servizio al termine del blocco imposto dai decreti dell’allora governo Conte.

Poi, un giorno, ecco il cartello: “Chiudo per mancanza di personale”. Forse lo fa per prendere tempo, magari l’uomo che, alla fine non imprimeva orari insostenibili, non trattava male il personale, sbaglia nella comunicazione. Cosa insegna questa storia: in Italia, c’è chi vuole lavorare, a cominciare dagli stessi dipendenti del ristoratore e, allora, l’idea di prendere ossigeno per rimodulare le due attività, non sia stata proprio il massimo. Auguriamoci che arrivino tempi migliori e, soprattutto, la chiusura temporanea porti consiglio.