Maggio 1998.
Bari, via Sparano.
Attraverso una strada che ho sempre percepito come una cosa “altra” da me, lontana dalla mia percezione di città. Una strada estranea nonostante la sua importanza.
In una Città non c’è mai una Città: la tua Città è lo spazio che vivi, la gente che abitualmente incontri, la signora della porta affianco insieme a quanti vivono la tua stessa strada, il tuo quartiere, i tuoi spazi. Quelli che respirano la stessa aria che respiri tu.
Quella che si definisce Città, in realtà, non è altro che la proiezione di vissuti “confinati”, delimitati idealmente e materialmente.
Un agglomerato che, supponendosi un insieme, comunità, è nei fatti una sostanza fatta di elementi che non si mischiano. Come accade nella chimica!
Chi arriva dalla periferia percepisce immediatamente la differenza: il rumore e il movimento caotico, quasi schizofrenico, delle persone ti disorientano.
La sensazione è quella di stare dentro una dimensione che non ti appartiene e cerchi di arrivare il prima possibile alla tua meta. Come fossi un corridore che ha di fronte a se solo il traguardo: arrivare e tornare il prima possibile dentro la tua dimensione, da quello che ti sembra un film, un incubo o un girone dantesco.
E facevo bene a non frequentare quei luoghi, quello spazio “nobile” della Città.
Avevo accelerato il passo appena sceso dall’autobus che porta dalla periferia al centro. Al mio fianco, la mia compagna di quei tempi non capiva il mio disagio, la mia repulsione per quei luoghi e per la gente che li frequentava.
Faceva fatica tanto il mio passo era veloce.
Su questa strada che sembrava non finire mai incrocio quello che era un presentimento, la frattura definitiva fra me e la “Città per bene”, quella delle vetrine e delle boutique.
Continuo a camminare sperando di arrivare alla fine di quello che sembrava un tunnel oscuro, buio auspicando di raggiungere almeno un raggio di luce quando mi ritrovo di fronte una scena alla quale non avrei mai voluto assistere: un uomo picchia violentemente un bambino e, non soddisfatto, sferza una sberla anche alla moglie appena uscita da uno di quei negozi nei quali si paga solo per entrare.
La reazione della mia compagna è stata immediata quanto spontanea: la giacca e la cravatta che indossava quello che ha definito “animale, bestia” non giustificavano in alcun modo la violenza che era passata davanti ai nostri occhi.
Un bambino e una donna picchiati per strada come fosse una cosa normale, abituale agli occhi degli altri.
La giacca, la cravatta e la camicia (che messe insieme, a quei tempi, forse equivalevano allo stipendio mensile di quattro operai) si sporcarono di sangue perché ebbero la sfortuna di incrociarsi con due mani che, casualmente, erano fuori dal contesto: quelle della mia compagna!
Due mani che ebbero la sfortuna di scagliarsi sulla faccia di un noto avvocato, paradossalmente “vittima di aggressione da parte di ignoti sconosciuti”.
Io e la mia compagna fummo “gentilmente” accompagnati in Questura nonostante decine di persone avevano assistito a quanto accaduto.
Tutto normale, tranne che sporcare di sangue la camicia all’avvocato!
Eh, non si fa!
Mentre, increduli, aspettavamo dentro una stanza della Questura, un Ispettore di Polizia contattava la vittima dell’aggressione (il noto avvocato) per chiedere se volesse sporgere denuncia nei nostri confronti: “Ma si figuri, sono ragazzi!” la risposta dell’inappellabile.
Ottobre 2017
Non è cambiato nulla!
Le violenze su donne e bambini continuano a moltiplicarsi, ad essere nascoste.
E la gran parte si consumano in contesti familiari.
Reagire, ribellarsi, denunciare è un percorso di liberazione.
Subire, essere accondiscendenti, cercare giustificazioni, coprire, nascondere è un percorso di mortificazione!
A casa, per strada o sul posto di lavoro.