«Vedere la costa italiana mi ha riempito gli occhi di emozione», racconta. «Ero militare, dovevo difendere un governo deciso con libere elezioni. Invece, il ribaltone, la fuga e i morti ammazzati, i miei commilitoni e due ragazzi in Libia, in cerca di lavoro»

«Ho visto morire davanti ai miei occhi, uno dietro l’altro sette miei colleghi, tutti militari, uccisi dal fuoco della guerra civile; poi in Libia, prima di imbarcarmi per la libertà, due ragazzi, anche loro in fuga verso una vita diversa, freddati come fossero due bersagli del tiro a segno!». Ndoli, ivoriano, trentaquattro anni, cristiano, racconta la sua storia il giorno del suo compleanno. Amici e colleghi hanno cominciato dalle prime ore del mattino a inviargli messaggi augurali attraverso la chat di “Costruiamo Insieme”. «Da circa un paio di anni è con noi – segnala con una punta d’’orgoglio Maurizio Guarino, il direttore generale della cooperativa – non ha bisogno di un interprete, lui stesso è uno dei mediatori più attivi all’interno della nostra organizzazione». Accenna il suo ingresso in squadra, prima di tornare a parlare dell’incubo della guerra vissuto con addosso anche una divisa militare. «Devo molto a Imram – spiega – un amico pakistano, connazionale di Kaleem e Idris, anche loro di “Costruiamo”; eravamo insieme ospiti in un albergo alla periferia della città, soffrivo scarsa attenzione e cura approssimativa che i gestori dell’epoca avevano nei confronti miei e degli ospiti della struttura: pulizia e alimentazione non erano il massimo, non parliamo il pocket money, il contributo che ognuno di noi avrebbe dovuto ricevere a fine mese». Con il passaggio a “Costruiamo insieme”, Ndoli tira un altro sospiro di sollievo.

Torna, dunque, a parlare di sofferenza, pagine di vita vissute che avrebbe voluto strappare. «Ma come si fa – osserva – quando perdi mamma e papà, chi dovrebbe essere una guida sicura per il tuo futuro; con la loro scomparsa avverti il mondo crollarti addosso, provi un dolore lancinante allo stomaco: persi a causa di malattie per debellare le quali occorrono cure costose, e quando non hai i soldi necessari, il futuro in breve è segnato».

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Vorrei tornare a casa ma li è un macello

Ad Abidjan, la sua città, capitale della Costa d’Avorio, Ndoli ha lasciato tre fratelli e tre sorelle. «Vorrei tanto tornare da loro – confessa – riabbracciarli, ma le cose lì non vanno bene da tempo; qui, in Italia, arriva una informazione non sempre corretta – ma questo è il mio punto di vista – i miei connazionali sono sottoposti a un continuo presidio militare, minacciati dalle armi: a nulla sono servite le libere elezioni: avevamo scelto un presidente democraticamente; qualcuno, invece, ne ha imposto un altro, è così che va da quelle parti».

Scatta la ribellione. «In qualità di militare, servivo la mia patria, una democrazia nel frattempo sovvertita: d’un tratto mi trovai fra due fuochi, i ribelli che non riconoscevano il presidente imposto contro le libere elezioni, e un governo che non era più il mio: in quelle occasioni, quando ti trovi nel mezzo, non esistono ragioni; armi in pugno vengono a casa tua, ti prelevano e ti conducono in una prigione e lì comincia la tortura, psicologica, lenta e drammatica, il finale è sempre lo stesso, a meno che non riesca a fuggire».

Durante i conflitti a fuoco, Ndoli, soldato, perde colleghi militari. «Sparavano a raffica – racconta con il dolore nel cuore – sembrava un tiro al bersaglio, non sentivo più le voci dei miei compagni, li vedevo stesi a terra, sanguinanti e privi di vita; durante i conflitti a fuoco la notte non si dorme, qualsiasi momento può essere quello fatale: non sentivo più di essere me stesso, vivevo la vita di un altro; e siccome al peggio non c’è fine, più drammatica era stata la prigionia e la fuga: nel campo nel quale ero recluso ci svegliavano alle quattro del mattino e ci facevano correre, non dovevi fermarti, altrimenti ti sparavano addosso e ti ammazzavano: ne ho visti ragazzi cadere uno dietro l’altro davanti ai miei occhi».

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Libia, sofferenza e poi l’imbarco per l’Italia

Poi la fuga e la Libia. «Odio le armi in assoluto – spiega – specie quando in mano le stringono bambini, di cinque, sei anni: lì “giocano” davvero alla guerra e se uno di loro ha deciso che al mattino deve divertirsi come fosse al tiro a segno, è la fine; due miliziani davanti a me hanno sparato addosso a due ragazzi uccidendoli all’istante: cercavano solo lavoro i due sfortunati, l’unico modo per mettere da parte soldi e pagarsi il viaggio per la libertà: due fucilate, invece, hanno deciso il loro destino».

«Avevo la sensazione di essere una bestia in gabbia – conclude Ndoli – non ero più io, aspettavo la fine da un momento all’altro; quando invece quattro anni fa mi sono imbarcato su un gommone, piccolo, nel quale eravamo in 145; ho cominciato a riappropriarmi della mia mente, in poco stavo nuovamente prendendo coscienza di chi fossi: un essere umano in cerca di un po’ di dignità, il mare non mi faceva più paura, la costa italiana mi riempì gli occhi di emozione e il cuore di gioia!».