La Siria tra guerra e siccità.
La competizione per le risorse non fa solo sfollati: può diventare causa di conflitto. Secondo il programma dell’Onu per l’ambiente, negli ultimi sessant’anni almeno il 40 per cento di tutti i conflitti interni registrati nel mondo è stato legato allo sfruttamento di risorse naturali, dal legname alle risorse minerarie, incluse la terra e l’acqua. L’Unep ha analizzato i conflitti avvenuti tra il 1990 e il 2009 per concluderne che almeno 18 erano stati innescati o alimentati dallo sfruttamento di risorse naturali (ma non si pensi solo al petrolio: dai diamanti in Angola, al coltan nella Repubblica Democratica del Congo, al legname pregiato in Cambogia, fino ai lapislazzuli in Afghanistan, gli esempi sono infiniti).
O forse si potrebbe guardare alla Siria. Tra il 2007 e il 2010 più di metà del territorio siriano è stato colpito da una grave siccità. In particolare le province nordorientali, tagliate dal fiume Eufrate, con i governatorati di Aleppo e Hassakeh che da soli fanno più di metà della produzione di grano del paese, e quelli di Idlib, Homs, Dara.
L’effetto è stato devastante, in tre anni i raccolti sono stati dimezzati. Parte del problema è che nei trent’anni precedenti le terre coltivate erano più che raddoppiate, tanto che la Siria esportava grano. Ma i terreni e le falde idriche sono stati usati in modo così intenso che quando è arrivata la siccità gli agricoltori non hanno neppure potuto attingere ai pozzi per irrigare i campi: erano per lo più esauriti.
Metà dei 22 milioni di siriani viveva di agricoltura, ma in tre anni la siccità ha fatto collassare l’economia agricola. È cominciato un esodo di massa. Nel 2010 circa un milione e mezzo di persone erano emigrate verso Damasco, Aleppo, Hama. Le città siriane però erano già sotto stress per il grande afflusso di profughi arrivati dal vicino Iraq dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003. Così un numero crescente di persone si è trovato a competere per servizi e infrastrutture già carenti.
Intorno ad Aleppo o alla stessa Damasco sono cresciuti grandi slum, con una popolazione per lo più giovane, senza lavoro, e carica di una grande frustrazione. Oggi possiamo dire che la siccità, e la crisi sociale che ha innescato, è una delle cause soggiacenti alle proteste scoppiate nel 2011 – su cui ovviamente si sono inseriti altri fattori storici, politici, geopolitici che hanno determinato la guerra interna.
Quando si dice sfollati ambientali, dunque, si allude a tutto questo: disastri del clima, crisi ambientali, e insieme l’espulsione dalla terra o l’accaparramento di risorse essenziali come l’acqua, con tutti i conflitti che conseguono.
Dunque, è il secolo dei profughi ambientali? Nelle norme internazionali questa definizione non esiste. Per la convenzione di Ginevra del 1951, profugo è chi fugge una persecuzione a causa di razza, religione, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche. Altre norme estendono la protezione umanitaria a chi è in pericolo, quale che sia il motivo.
Esistono convenzioni che proteggono gli sfollati interni. Bisognerà estendere la protezione a tutti coloro che sono costretti a migrare, quali che siano le minacce che subiscono. Il contrario di quello che succede oggi negli hotspot europei, dove i profughi di guerra hanno il diritto di chiedere asilo, mentre tutti gli altri sono respinti.
L’accoglienza però non basta, dice Barbara Spinelli: “Dobbiamo andare alle radici, alle cause che spingono tanti a emigrare: espropriazione delle risorse, land grabbing, accordi di libero scambio squilibrati in favore dei paesi ricchi, i modelli di sviluppo non sostenibili promossi fin dagli anni settanta dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, che hanno messo in crisi le economie locali”. Altrimenti, dice Spinelli, “saremo come infermieri dei disastri, che intervengono solo quando la crisi precipita”.