Tano, guineano, il suo dramma e quello dei suoi compagni di viaggio

«In Libia, sottoposto a un lavoro duro, era come se morissi ogni giorno. Ho visto persone ammazzate, poi seppellite a pochi metri dal mio giaciglio. Attraversare una distesa d’acqua infinita mette paura, ma meglio affrontare il buio e l’imprevisto che essere trattati come schiavi…»

La storia è sempre la stessa. E questo nonostante siano passati anni dai primi sbarchi di extracomunitari nei nostri porti. Con gli italiani, anche più ostili, sopraffatti invece da una ondata popolare di umanità e solidarietà nazionale, avrebbero dovuto farsene una ragione. E, invece, nonostante tutto, ecco che tornano a farsi spazio, qualora fossero state definitivamente sotterrate, frasi offensive. Offensive, aggiungiamo noi, più per chi le pronuncia che per chi è oggetto delle stesse.

Cosa dicono ancora certi italiani. «Arrivano nel nostro Paese, ci rubano il lavoro e il pane, qualcuno insidia le nostre donne, e talvolta ci rubano anche quelle; la maggior parte di questi sono terroristi, ladri, prostitute e spacciatori; gli immigrati mettono in tasca, grazie a uno Stato italiano generoso, quaranta, anche cinquanta euro al giorno: se non è uno scandalo questo!». E non è finita, il delirio, davanti a un caffè al bar, e con post sui tanti social, prosegue. «Sapete dove alloggiano? Ve lo diciamo noi: in alberghi a cinque stelle, con tanto di vasca per idromassaggi e mi risulta che si lamentino pure». Che coraggio quei pochi italiani, mai a metterci la faccia, ma a consegnare ai social a una telefonata ad un programma radiofonico piuttosto che televisivo. Mai assumersi in prima battuta una responsabilità, una paternità. Invece, lancio della pietra e mano nascosta, come nelle migliori tradizioni

Invece, lasciatecelo dire, non è così. Non tutti gli italiani sono uguali. Intanto non sono così cattivi, tranne le solite, dolorose eccezioni, dando per scontato, come diceva il grande saggio Ennio Flaiano, “la mamma dei cretini è sempre incinta”.

Foto Avvenire

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«AFFRONTARE IL MARE, UN DRAMMA…»

Molti lo fanno, altri anche per mancanza di tempo, non ci pensano nemmeno. Non pensano a quali drammi, uno dietro l’altro, in modo diverso, ogni extracomunitario affronti l’addio al suo paese. «Affrontare il mare di notte – ci dice Tano, ventuno anni, guineano – è qualcosa di terribile, penso a quanti fratelli non conoscessero nemmeno cosa fosse una distesa immensa, infinita come il mare; terribile, il mare aperto, perché sei su un’imbarcazione che non è una nave da crociera, bensì quella che gli italiani chiamano “bagnarola”, per dire che imbarca acqua da tutte le parti; non sai quanto durerà quel tuo viaggio da una costa all’altra: puoi aver consultato tutte le carte di navigazione, cellulari con le app che ti spiegano come sarà il tempo per le prossime ventiquattro ore, ma quando sei in mare aperto, bene, lì comincia il dramma; lo avverti, secco, sulla tua pelle, ti manca il fiato, a chi è debole di stomaco subentra la paura del viaggio e della morte, perché tutti sappiamo quanti fratelli africani ci hanno rimesso la pelle durante il viaggio della speranza».

Tano, arriva dalla Guinea, ha raggiunto la Libia passando per il Gambia, dopo settimane di viaggio nel deserto. «Quei giacigli sui quali dormivo quando ero in Libia, erano pieni di insetti: avevamo già pagato il viaggio, ma in attesa che fosse organizzata la traversata dovevamo lavorare per i padroni del posto: senza alcun compenso, come fossimo schiavi; c’era chi, stanco, si rifiutava di lavorare ancora e allora per lui giù botte: ho visto morire gente davanti ai miei occhi e dover seppellire i cadaveri non molto lontano da dove dormivo con i miei compagni: alla fine, come potete capire, essere arrivati in Italia, un Paese bello e rispettoso, è stato il mio primo sogno realizzato».

Foto Nigrizia

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«DALLA GUERRA ALLA SCHIAVITU’»

Fuggire da un Paese nel quale c’è una guerra civile, arrivare in un altro Paese, la Libia, dove l’accoglienza non è proprio fra le prime dieci cose che tengono a mente quanti lì vi abitano. «La fuga dalla Guinea, poi dalla Libia, dove non è possibile restare: puoi passare dalla padella alla brace, cioè da una banda armata che ti fa prigioniero e chiede un riscatto in denaro, a militari che ti sottopongono a fatiche su fatiche con il miraggio di lasciarti, prima o poi, andare via, libero… Il mare, di notte, rappresenta un pericolo costante: sembra di vivere dentro un film dell’orrore, dal buio può sbucare una nave che ti investe e ti spazza via senza accorgersene, oppure una balena che non volendo ti ribalta, i pescicani che ti girano intorno e dei quali avverti quelle pinne dorsali che non promettono mai niente di buono. E’ buio, non vedi nemmeno il tuo compagno di fuga a un metro, come fai, allora aspetti l’alba e preghi; preghi anche che il sole del mattino non sia così violento, altrimenti sarebbe come passare da un incubo all’altro…».

Allora, Tano, perché è partito. «Così, perché affrontare il mare in condizioni disumane – spiega – rischiando una morte atroce, pare sia l’unica alternativa: viaggi nel deserto, la prigionia nei lager in Libia dove viene perpetrata una violenza inaudita, con la corruzione di ufficiali dell’esercito libico in qualche modo pappa e ciccia, si dice, con le organizzazioni criminali; per non parlare di quanti, familiari, amici, anche semplici conoscenti sono morti letteralmente inghiottiti dal mare».

Una volta salvi, gli immigrati collaborano con polizia e magistratura. Fanno nomi, danno numeri di telefono degli scafisti, indicano le città e i porti da cui sono partiti, mostrano i filmati girati di nascosto nel corso della traversata.

«Posso dire finalmente – conclude Tano – di avercela fatta, di aver trovato la mia occasione, adesso tocca a me farmi apprezzare, mostrare la voglia che ho di lavorare, mettere insieme del denaro per poi proseguire il viaggio verso altri Paesi nei quali vivono e lavorano miei connazionali: una cosa mi ha in segnato questa brutta esperienza: meglio morire in mare che restare, per esempio, in Libia: in mare muori una volta sola, in quel Paese è come se morissi almeno una vota al giorno».