Felice 2020, senza dimenticare

Michael, nigeriano, la fuga e il nuoto in uno specchio d’acqua.«Mette paura, ma dà anche quel senso di liberazione a lungo cercato». Un proposito su tutti. «Voglio fare l’idraulico per vivere e non per far soldi, riabbracciare mamma e fratello, ovunque, purché sia lontano dai colpi di armi da fuoco. Mio padre, cinque mesi scappando, tre da recluso…»

«Che sia un 2020 pieno di gioia per tutti, con mille sorrisi e zero pianti!». E’ di buon auspicio l’augurio che uno dei ragazzi ospiti della cooperativa “Costruiamo insieme” rivolge ad amici e conoscenti. Ci piace il sorriso con cui fa gli auguri, la frase è più o meno simile. Vanno premiate le intenzioni, per imparare l’italiano c’è tempo, anche se lui, come i suoi “fratelli”, impara in fretta.

«Il mare è il profumo della libertà, quando posso faccio lunghe nuotate, l’acqua non mi impressiona, la sento amica, anche se nel viaggio dalla Libia all’Italia ho tremato…». Michael, nigeriano, ha cicatrici sul corpo e nella mente. Gliele hanno procurate torture e continue vessazioni, quelle cui era sottoposto dai suoi carcerieri, aguzzini, ragazzi senza un briciolo di cuore. «Pensavano solo al denaro, la tua vita valeva meno di cinquecento dinari libici, circa trecento euro, che dovevi procurarti in qualche modo: unica via di fuga la telefonata a casa, ai parenti, ma dove vuoi che telefonassi se i “miei”, mia madre e mio fratello lasciati a casa, non avevano nemmeno un recapito?».

Storia triste quella del ragazzone di appena trent’anni. «Mio padre ucciso durante una guerriglia – ricorda Michael – le pallottole “fischiavano” a tutte le ore, a qualsiasi altezza: tanti i feriti, tanti i morti ammazzati, dal fuoco di armi usate con disinvoltura, specie dai più giovani che davano alla vita di un essere umano più o meno il significato di un bersaglio, come fosse a un tiro segno: “…Se riesci a schivare il caricatore mentre scappi, sei libero!”, ti dicevano; e ridevano, come solo uno che non ha testa a posto può fare; la tua vita valeva trecento euro o il solo piombo di una pallottola nella schiena!».

SORRIDERE, COSA SIGNIFICA?

Chiacchieriamo con Michael, di un sorriso nemmeno l’ombra. E’ così che va, il volto è segnato dal dolore e dalle cicatrici che mostra sollevandosi una maglietta. «Provocate da un coltello affilato, usato come se fosse l’attrezzo di un chirurgo, affondato nella carne viva una, due, tre volte… e le profonde ferite ricucite alla meno peggio, tanto da essere diventato un torace inguardabile nel quale mi specchio ogni mattina che il Cielo manda giù!».

E allora, l’Italia, «un viaggio breve e lungo», si dice. Una prospettiva. «Lavorare – confessa Michael – nel mio Paese facevo l’idraulico, me la cavavo, non stavo mai un attimo fermo, mi piacerebbe farlo anche qui, in Italia: mi mancano gli attrezzi, ma se mettessi un po’ di soldi da parte potrei cominciare con il comprarmi una cassetta con gli utensili giusti per mostrare quanto sia bravo».

Non lo sa Michael, ma gli idraulici bravi scarseggiano e pare sia una delle categorie più ricercate e, in qualche modo, più “ricche”. «Ma il denaro non è tutto nella vita – spiega – anzi, è meno che niente, se non fosse che nel mio caso può darti la libertà o una vita decorosa: non voglio essere ricco, ho la vita, due occhi con i quali guardare cielo e terra, le cose belle del creato, la gente che amo e mi ama, non c’è altra ricchezza: non faccio poesia, invito chiunque sia fuggito da una zona di guerra o dalle persecuzioni, a non condividere quello che dico; per me il lavoro è sopravvivenza, il solo modo che conosca per vivere dignitosamente, ho le tasche piene di odio e cattiveria, non immaginate quanti giuramenti abbia fatto in quei tre mesi di prigionia in Libia, quando vedevo che picchiavano qualsiasi cosa si muovesse; calcioni a chiunque e ovunque, anche in bocca, denti sparsi dappetutto, una cattiveria che non si può raccontare senza correre il rischio di non essere creduti!».

CINQUE MESI DI CORSA…

La fuga dalla Nigeria. «Durata cinque mesi, di cui tre da prigioniero, restare a casa era diventato pericoloso: più che ribellarmi o sfidare un sistema fatto di violenza e armi da fuoco, provavo ragionevolmente a fare riflettere che la dignità ci spettava di diritto e che nessuno poteva negarcela; invece, nemmeno a dirlo, giù botte, ovunque capitasse, mi raccoglievo come un sacco di patate in un angolo e pregavo che quella furia di calci e pugni finisse al più presto; dopo la mia fuga verso la libertà, la Libia e lì, punto e a capo, di nuovo tante botte…».

Infine l’Italia. «Un altro mondo, un’altra prospettiva, con la voglia di riabbracciare mamma e fratello, daccapo in Nigeria oppure in un’altra parte del mondo, magari qui, in Europa, dove c’è appena un po’ di lavoro, indispensabile per sopravvivere e, poco per volta, riappropriarmi di quel sorriso che non ricordo più cosa sia: a me hanno risparmiato i denti, non la pelle, ho cicatrici dalle caviglie al petto; qualcuno mi dice che, col tempo, passerà, facile a dirsi, più complicato metterlo in pratica: quando mi specchio tutte le mattine non posso fare a meno di guardare il mio petto ridotto a una carta geografica, difficile dimenticare; poi mi sfioro quelle cicatrici e mi dico “Michael, tutto sommato la tua storia la racconti, ringrazia il Cielo!”». Guarda in alto, Michael. Il sole, qualche nuvola passeggera, il ragazzone nigeriano accenna un sorriso. Magari sta riprovando cosa possa significare tornare a sorridere.