Mosi, uno dei tanti ragazzi impegnati nella raccolta nei campi

«Secondo qualcuno i neri amano il far niente, altri che toglieremmo occupazione; un datore, invece, mi ha confessato che i figli non vogliono saperne di sgobbare fra frutte e verdure. Rispetto quanti scelgono il cappellino per vivere di elemosine, ma preferisco guadagnare sudando…»

«Per favore, non parliamo delle solite cose, dei neri che arrivano in Italia, non hanno voglia di lavorare e li trovi agli angoli delle strade e, peggio, davanti a un bar o un supermercato con un cappellino stretto fra le mani ad elemosinare pochi spiccioli: come gli italiani, i tarantini, i neri non sono tutti uguali – la maggior parte, sfido chiunque a dire il contrario – c’è chi vuole lavorare, a costo di spezzarsi la schiena nei campi, a raccogliere frutta e verdura!».

Mosi, uno dei nostri tanti amici, determinati, arrabbiati – se vogliamo – ce l’ha con quanti fanno di tutta l’erba un fascio e non usa tanti giri di parole. Lo avevamo già ascoltato il suo punto di vista su temi delicati. Ci soffermiamo, però, su uno dei luoghi comuni, spesso dibattuti dagli italiani, tanto da aver diviso questi, in due scuole di pensiero: quelli che sostengono che i neri «non hanno voglia di far niente» e quanti, invece, dicono che «i neri – sempre loro e chi sennò, sottolineato con la massima ironia – vengono in Italia e rubano quel poco di lavoro ancora disponibile».

«Basterebbe questo – dice Mosi, il suo discorso non fa una grinza – a far capire alla maggior parte degli italiani, quella che ci rispetta, e sono tanti a volerci bene, che i neri non possono essere considerati nello stesso momento sfaticati e “ladri” di lavoro: quelli che ci danno addosso, però, devono decidersi; oltre al rispetto, oggi c’è anche tolleranza, non vedo la gente osservarci con disprezzo, guardarci come “quelli che sono venuti ad occuparci”: i primi tempi non sono stati facili; quando entravamo in un locale, un bar – faccio un esempio – e c’era gente, avevo netta la sensazione che tutti stessero osservando me, si guardassero fra loro, accennassero un sorriso d’intesa come a dire “eccone un altro!”».

ELEMOSINARE, MAI!

Non è così, Mosi insiste. «Detto che fra noi, c’è una minoranza che occupa l’uscita di bar e supermercati per stendere una mano e chiedere pochi centesimi – qualcosa che io non condivido, ma rispetto come scelta non conoscendo i problemi dei singoli… – anche fra gli italiani, c’è una minoranza che proprio non vuol saperne di aprire un dialogo con noi: si sono fatti un’idea sui neri, in genere, fin dall’inizio e quella è…».

Difficile farli ragionare. «Non ci pensano nemmeno, faccio un altro esempio: una mattina sono entrato in un bar, ho fatto un biglietto per il bus, bene, non volendo sono stato oggetto di discussione, tanto che per poco due tarantini non litigavano furiosamente fra loro: uno diceva che non era il caso facessi il biglietto, perché a Taranto non sono abituati a pagare i trasporti pubblici, poi a maggior ragione essendo nero cosa vuoi che mi avrebbe fatto un controllore se non sorvolare; l’altro sosteneva, invece, che era giusto facessi il biglietto, perché se noi neri vogliamo far parte di una società è bene accettare le regole che questa invita a rispettare. Ovviamente sono d’accordo con il secondo, ma i due se le sono dette con toni accesi, da litigio. Fatto il biglietto, sono andato via, ho lasciato i due che hanno continuato a fare discorsi scontati ai quali io, francamente, non faccio più caso: insomma, un ragionamento, due punti di vista diversi».

Torniamo per qualche istante al lavoro, agli africani che sostano davanti a supermercati e bar con il cappellino. «Anche io ho fame come loro – spiega Mosi – sono stato ospitato dal Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”, ma fin dall’inizio anche invitato a guardarmi intorno, fare corsi, perfezionarmi in materie nelle quali sono portato, perché “L’accoglienza non è per sempre!”, mi spiegavano; è giusto, così mi sono dato da fare: detto che avevo scartato da subito il “cappellino” all’uscita di un locale per chiedere spiccioli, sono andato a lavorare nei campi, insieme con altri fratelli neri: a raccogliere frutta e ortaggi».

«FORTUNA CI SIETE VOI!»

Non è il primo, non sarà l’ultimo. «Il mio datore di lavoro – prosegue – con il quale ho stabilito un buon rapporto, quasi benediva che in Italia fossero arrivati i neri, perché nei campi non vuole più lavorarci nessuno; gli ho spiegato che il raccolto ce lo abbiamo nel sangue, basti prendere i neri e le piantagioni di cotone negli Stati Uniti: ma non sappiamo fare solo questo, gli ho spiegato, siamo esseri umani, abbiamo una mente uguale a quella dei bianchi, la stessa voglia di studiare e, perché no, la stessa voglia di lavorare, visto che con me c’erano molti bianchi a fare il mio stesso mestiere».

Ultima considerazione. «Entrati in confidenza – conclude Mosi – il datore si è anche un po’ sfogato. In vena di confidenze, mi ha detto che i suoi figli e i figli di altri proprietari di terreni e vigneti, non vogliono saperne di fare il nostro lavoro nei campi; spesso i loro ragazzi sono partiti per studiare e stabilirsi al Nord, salvo poi tornare per fare uno dei mestieri più antichi del mondo, detto dal mio datore stesso: i mantenuti. In attesa di tempi migliori – questo il loro punto di vista – i figlioli restano comodamente a casa, a loro ci pensano papà e mamma».

Tanto a raccogliere frutta e verdure nei campi, ci pensano Mosi e i suoi fratelli.