Solomon, nigeriano di Benin City

«Non fa parte della mia cultura chiedere danaro senza averlo sudato. Lavoro da meccanico per mettere soldi da parte e tornare a casa, dai miei cari, moglie e quattro figli, e decidere se restare ancora lì o andare via per sempre. Mio padre, accoltellato e morto fra le mie braccia, odiava i prepotenti». 

«Non chiederei mai l’elemosina per strada, nemmeno se fossi assalito dalla fame, proverei qualsiasi altra cosa, offrirei lavoro in cambio di un pezzo di pane, ma ridurmi a stendere la mano per raccogliere qualche euro senza aver faticato, no, questo mai!».

Un anno e mezzo in Italia. La fuga di Solomon dalla Nigeria, una necessità. «Non c’era verso, non potevo più restare lì, a Benin City, capitale dello stato di Edo – racconta quel ragazzone di trentasei anni, quattro fratelli e quattro figli rimasti a casa – nonostante vivessimo in un centro importante, frequenti erano le scorribande di malavitosi, banditi senza scrupoli che ci mettono poco a realizzare che una coltellata – purtroppo – può sistemare tutto, più di qualsiasi discorso…». E da Solomon, fossero stati uno o più assassini, questi si fecero intendere. Con le cattive.

Racconto è agghiacciante. Meglio una breve pausa, torneremo più avanti sull’episodio che ha segnato la vita al nostro amico. «Avevo già perso mia madre – riprende Solomon – una malattia dalle mie parti considerata incurabile, quando i bene informati mi dicono che esistono medicine che fanno miracoli: ma in Nigeria l’assistenza medica è quello che è, insomma non è per tutti e ognuno si cura come può; persi mia madre, grande donna, portava avanti una famiglia di cinque figli, più papà che lavorava sodo, lui faceva il possibile per non farci mancare niente: un brutto giorno anche a lui trovarono un male che non perdona, andava assistito quotidianamente, dovetti rinunciare a diversi giorni di lavoro pur di stargli accanto; non migliorava, anzi, poco per volta le sue condizioni andavano peggiorando; in qualche modo per le cose principali era anche autosufficiente, ma andava assistito: una semplice caduta ne avrebbe complicato lo stato di salute, già evidentemente compromesso…».

SFIDA ALLA PREPOTENZA

Il papà di Solomon, persona di sani princìpi, tanto da averne trasmessi a lui e agli altri quattro fratelli, non tollerava la prepotenza. «Uno di questi episodi – torna a ricordare il nostro amico meccanico – gli costò la vita, a niente servirono le mie parole e quelle dei miei fratelli; non so se papà, nelle condizioni in cui era, preferì sfidare questi delinquenti che chiedevano denaro facendola passare come una richiesta di “prestito”: solite storie, chiedono soldi, insistono con le buone e poi con le cattive, poi non li restituiscono più e guai se provi a ricordarglielo, finisce male…».

Quell’atto di coraggio del genitore in uno stato cagionevole, servì a poco. «Io e i miei fratelli – racconta Solomon – proprio non riuscimmo a dissuaderlo, provò a cacciare quella gentaglia che non agisce mai da sola, tantomeno a mani nude: purtroppo uno degli aggressori pensò che lui e i suoi complici avevano già perso troppo tempo inutilmente e che alla nostra famiglia andava inflitta una lezione severa; sfilò, dunque, un coltello dalla cintola e rifilò un fendente a un fianco di mio padre che si accasciò fra le braccia mie e di un mio fratello». Il primo impulso fu quello di reagire, farci giustizia a mani nude. Ma sarebbe stata una carneficina. Stavolta fu Solomon ad essere convinto che per il suo bene, della moglie e dei suoi figli, degli stessi fratelli, non era il caso di reagire. «Quella giornata si sarebbe trasformata in una mattanza: giurai, però, che a quei quattro delinquenti l’avrei fatta pagare; ma a fuggire, purtroppo, fui io: cominciarono a darmi la caccia, la paura che potessero fare del male ai miei più cari era concreta, quei malviventi non facevano sconti a nessuno, così scappai».

La fuga, l’arrivo in Libia, un lavoro da meccanico. «Ma anche nei campi – puntualizza Solomon – non mi sono mai tirato indietro, ho schiena e spalle robusti, posso fare qualsiasi lavoro pur di raggiungere il mio obiettivo principale: riunirmi alla mia famiglia, riabbracciare mia moglie e i miei figli».

LIBIA, LAVORO DA MECCANICO

Dopo la tragedia e la fuga, al giovane nigeriano tutto sommato, ma proprio tutto sommato, va meglio. «Al contrario di altri miei connazionali e altri fratelli africani, non ho subito ricatti e botte per fare intascare denaro a una delle solite bande che circolano liberamente da quelle parti; ho lavorato, sodo, e messo in tasca soldi sufficienti che mi permettessero di pagare il viaggio per l’Italia».

Prima di imbarcarsi l’ultima mossa prudente. «Non tirai fuori subito il denaro, chiesi prima informazioni, alla fine mi convinsi e raggiunsi la spiaggia, in una mano il denaro che avrei consegnato solo una volta sull’imbarcazione, un barcone che poteva ospitare sì e no trenta, quaranta persone e invece ne aveva imbarcate qualcosa come centocinquanta…». Acqua fino al petto, a spingere quella “bagnarola” verso il mare aperto. «Tenevo i soldi in una mano, li mollai solo una volta a bordo: vedere quell’immensa distesa di acqua faceva un certo effetto, già quella immagine dava un senso di libertà; anche in quell’occasione posso dire che mi andò bene: dopo sette ore, in mare aperto, fummo avvistati da una nave militare italiana che ci raggiunse e invitò a salire a bordo; ci scortò sulla terra ferma, ero in Italia».

L’ultima missione di Solomon. «Una promessa che intendo mantenere: lavorare sodo, mettere da parte i soldi, tornare a casa, per riabbracciare i miei figli – due ragazzi e due ragazze, fra i tre e i sedici anni – e mia moglie, e capire con loro se non sia il caso di lasciare definitivamente la Nigeria in cerca di una vita più umana…».