Cochi Ponzoni, al teatro Orfeo di Taranto

«Una vita senza spendersi per qualcosa in cui si crede, sarebbe incompleta. Vivere per quanto si ama, per il prossimo, anche fare buon teatro è importante». Da “Emigranti” a “Quartet”, passando per il cabaret del “Derby”. «Jannacci, un fratello. Incoraggiati da Eco, Brera, Flaiano, Buzzati, Bianciardi e Fo. L’Avvocato smetteva di giocare a golf per guardarci in tv. “Bravo, 7+” diventò un tormentone scomodo…»

«La vita senza impegno sarebbe una vita incompleta, io ho provato a farlo – spero bene – in tutti questi anni; spendersi per una cosa che si ama, per il prossimo, anche con un’attività come il teatro – purché si faccia bene – è importante: io l’ho fatto e continuo a farlo, con il benestare del pubblico, s’intende, perché altrimenti senza di quello dove vai…».

Aurelio “Cochi” Ponzoni, in passato ha portato in scena anche “Emigranti”, uno dei tanti lavori impegnati. Famoso per aver fatto parte del duo più celebre del cabaret italiano. Con Renato Pozzetto, infatti, Ponzoni ha dato un grande contribuito alla storia del cabaret Anni 60 e 70 che si concretizzava al “Derby” di Milano. Ponzoni, dunque, si racconta per noi. La tv di un tempo, la sperimentazione che faceva centro, proprio del popolare duo, da “Quelli della domenica” nel pomeriggio a “Il poeta e il contadino” in serata.

Ponzoni in questi ultimi anni si è dedicato al teatro. Ultimo lavoro con il quale è ancora in scena: “Quartet”. Con lui, Giuseppe Pambieri, Paola Quattrini ed Erica Blanc. Ospiti insieme della Stagione teatrale dell’associazione “Angela Casavola” per la direzione artistica di Renato Forte (sponsor “Costruiamo Insieme”). Dalla tv al cinema, poi la scelta definitiva: il teatro. «Parliamo pure di Renato – dice Ponzoni, subito – non abbia problemi: fa parte della mia vita, non solo quella artistica, siamo cresciuti insieme fin da bambini; i nostri genitori si conoscevano, i fratelli di Renato e le mie sorelle maggiori erano già amici».

E’ un assist. Parliamo allora di quei tempi, allora. Un cabaret di tale spessore che non ha più avuto repliche nel tempo. Una sterzata che arriva al primo boom economico, prima della Milano da bere. «Quella era ancora la Milano da guardare – ricorda – io e Renato eravamo studenti, l’unica cosa che bevevamo era del vinaccio, insieme con Enzo Jannacci, il nostro terzo fratello; con lui a cavallo degli anni al “Derby” per una decina di anni abbiamo vissuto gomito a gomito; con noi, oltre allo stesso Jannacci, c’erano Lino Toffolo, Felice Andreasi, Bruno Lauzi e Beppe Viola, amico d’infanzia di Enzo. I nostri più accaniti sostenitori, a quei tempi: Gianni Brera, Umberto Eco, Dino Buzzati, Luciano Bianciardi, Dario Fo, una bella “curva sud”».

Non si viveva di tormentoni. «Non li inseguivamo, venivano spontaneamente e all’epoca la gente li faceva suoi, il più celebre: “Bravo 7+!”; non stavamo a scervellarci alla ricerca di qualcosa che funzionasse e ci aiutasse a diventare in qualche modo più popolari».

Esistono ancora a Milano luoghi in cui confrontarsi con l’arte. «Ci sono e sono incoraggianti, li conosco, dopo anni sono tornato a vivere a Milano: esistono giovani molto promettenti, locali in cui si fa teatro impegnato e teatro leggero, comunque trovo che molti ragazzi siano preparati, oggi va di moda “Spirit de Milan”, grande fabbrica dismessa dalla quale è stato ricavato un grande ristorante nel quale si esibiscono giovani artisti, musicisti jazz, da soli o in formazione: bello, ve lo raccomando».PONZONI articoloNon c’è più la tv di una volta. «C’era un solo canale, anzi due, il secondo aveva cominciato a funzionare da poco: ci guardavano in trenta milioni, molti di questi allibiti, ci vedevano fuori dalla norma, consideri che Paolo Villaggio aveva la fama del presentatore che picchiava le vecchiette. Anche in tv avevamo sostenitori mica da poco, oltre ad Eco e gli altri intellettuali, c’era anche la noblesseindustriale; per sua stessa ammissione, fra i nostri più accaniti spettatori c’era l’Avvocato. Gianni Agnelli in una intervista disse che la domenica smetteva di giocare prima a golf per assistere al programma “Quelli della domenica”. A me e Renato ci aveva chiamati Marcello Marchesi, il “signore di mezza età”, uno che aveva scritto cose splendide; poi il richiamo del cinema e un certo successo, anche se per strade diverse: Renato interpretò “Per amare Ofelia” per la regia di Flavio Mogherini, un successo, io “Cuore di cane” diretto da Alberto Lattuada, un lavoro più impegnato, ma ero felice: per il successo di Renato, ma anche per le cose che sceglievo».

Poi il teatro. «Volevo fare il teatro di prosa, una passione nata qualche anno prima, nel ’72 quando al Festival dei Due mondi di Spoleto, diretti da Vittorio Caprioli rappresentammo “La conversazione continuamente interrotta” di Ennio Flaiano, un grande. C’era anche Renato in quell’occasione. Flaiano, piuttosto, appariva sconsolato per l’insuccesso che un suo lavoro, delizioso, “Un marziano a Roma”, stava registrando nonostante Vittorio Gassman; sperava che la ripresa de “La conversazione”, funzionasse: andò bene, mi innamorai del teatro, più avanti incontrai Orazio Bobbio, attore, e Francesco Macedonio, regista, una vita per il teatro, portai in scena fra gli altri,  “La panchina” di Gel’man, “Omobono e gli incendiari” di Frisch».

Lei ha sempre manifestato una cifra drammatica. «Vero, fra i due Renato aveva creato e realizzato una maschera, io invece mi divertivo a recitare, a misurarmi con cose sempre diverse, più impegnative, se vuole. Ero piccolo, quando con le mie sorelle più grandi la domenica andavo in chiesa e all’uscita imitavo il prete: recitavo, divertivo».

Uno sketch famoso, un retroscena. «Si riferisce a “Bravo 7+”, riprendevamo la realtà, era il periodo in cui si parlava delle baronie universitarie, si scopriva che i docenti erano di manica larga per mille motivi; insomma, quello sketch infastidiva un certo sistema, tanto che alla tredicesima puntata ci fu fatto invito di non proseguire: era arrivato un documento del Ministero della Pubblica istruzione e della stessa Rai. Ricorderete, io ero il figlio di papà a cui Renato, dopo l’appello ai “bambini assenti e presenti” assegnava compiti come fotocopiare una banconota da cinquantamila lire, tenere la copia e consegnare l’originale all’insegnante».

Teatro e cinema, oggi fa uno e l’altro. «L’ultimo mio film lo scorso anno, “Si muore tutti democristiani”, prima diretto da Francesca Archibugi avevo interpretato “Gli sdraiati”; ai tempi mi avevano proposto solo filmetti che francamente non prendevo in considerazione; faccio l’attore, il cinema solo se offrono ruoli importanti, mi riferisco allo spessore del personaggio da interpretare, altrimenti preferisco il teatro: ha il fascino del palcoscenico, lavorare ogni sera, senza rete, è un’emozione insostituibile, questo è il mio lavoro».