Ismail, ivoriano: la fuga, il sogno

«Morto papà, ho rinunciato la scuola, occasione solo per chi po’ permetterselo. Vivevo in un quartiere sorvegliato da militari. La differenza sociale, il trattamento fra ricchi e poveri, il rispetto negato. In centododici in mare, ci contavamo perché nessuno cadesse in mare…»

«Si chiamano check-point, in Italia sono i posti di blocco; ma, mentre qui fermano chiunque, senza distinzione, nella mia Costa d’Avorio lo stop e il controllo sono riservati alle sole fasce socialmente deboli: ci perquisiscono, guardano cosa trasportiamo, ci svuotano perfino le tasche, poi ci lasciano andare». Non è una condizione, ma una umiliazione continua, racconta Ismail, ivoriano. Conosce tre lingue, il dialetto della sua terra, il francese, l’italiano. «Ho imparato in fretta, i primi tempi quando non riuscivo a trovare le parole giuste, usavo le mani e la gente mi capiva…».

Ismail si racconta. «Ho vissuto a San Pedro, fino ai diciotto anni, poi mi sono fatto coraggio e sono scappato; scappato, sì, perché i poveri nel mio Paese sono risorsa per ricchi, numeri, qualcosa da spremere e poi gettare, un delirio».

Il protagonista della storia, ha finalmente ripreso a sorridere. La sua fuga verso la libertà era cominciata con un pianto. «La morte di mio padre. Lui manteneva la famiglia, si spezzava la schiena, da mattino a sera, purché non ci mancasse niente, finché un brutto giorno, la salute cominciò ad abbandonarlo: morì in breve tempo, la famiglia si fece a pezzi; come se di colpo avesse abbandonato me, mamma, una sorellina e un fratello più grande, al nostro destino: quattro bocche da sfamare, di colpo non trovarono più di che vivere».

Una decisione forzata. «Intanto il governo usa misure più restrittive, i villaggi sono quartieri sotto controllo, come fossimo reclusi, una libertà vigilata, una vita che non è più vita e, allora, prendo a malincuore una decisione: ne parlo con mamma e mio fratello, preparo il mio zainetto e via, senza una meta, facendo attenzione a non incontrare militari ai quali dare mille spiegazioni».

NON MANGIAVO PER RISPARMIARE

Per il viaggio verso l’Italia, occorre denaro. «Arrivato in Libia ho lavorato, una ditta di pulizie mi aveva assegnato le aule universitarie, cominciavo al mattino e finivo la sera, un lavoraccio: ma sempre meglio che nei campi, mi dicevo. Soldi, pochi, me li facevo bastare, a volte rinunciavo a mangiare pur di mettere insieme la cifra che mi sarebbe servita per pagare il viaggio su una imbarcazione per l’Italia; so fare altri lavori e non alla leggera: quando hai fame impari in fretta, così ho fatto il muratore e l’elettricista, mestieri che in un Paese come il mio, in continua crescita, servono come il pane: ma non ne potevo più».

Ismail si pone una domanda, si dà una risposta. «Nel mio Paese esistono distese illimitate, danno il senso di una libertà sconfinata, invece hanno cominciato a costruire palazzi, alti come grattacieli, tutti concentrati in zone chiamate “residenziali”: come fanno ad abitare o lavorare in costruzioni simili? Se ci penso comincia a mancarmi l’aria, ma poi capisco il perché: la gente ricca vuole staccarsi dal resto della popolazione, case lussuose e comitati d’affari senza compiere viaggi di chilometri e chilometri, questo loro progetto non fa una piega. Ma non potevo sopportare oltre, così sono scappato. Brutta cosa la fuga, come voltare le spalle ai tuoi cari, recidere di colpo le radici con il tuo passato, ma non c’era altra via…».

Avrebbe voluto continuare gli studi. «Papà si sacrificava così tanto perché, diceva, i suoi figli non facessero la sua stessa fine: con lo studio e la conoscenza, storia, arte, letteratura, avremmo potuto confrontarci con altri mondi; invece, un fulmine a ciel sereno, la scomparsa di papà, fine di un sogno; in Costa non c’è scuola dell’obbligo: se hai di che pagarti gli studi, bene, altrimenti ai “lavori forzati”: muratore, elettricista, tutto il giorno per pochi soldi. E guai se ti ribelli».

Il lavoro in Libia, i soldi per il viaggio. «Arrivai lì, lavoravo per una ditta di pulizie. Partimmo in centododici su un gommone, sul quale potevano viaggiare appena in trenta; ma come fai a rinunciare a quella opportunità anche se pericolosa? Centododici, ci contavamo spesso per paura che perdessimo qualcuno durante il viaggio, non è che ci volesse molto: seduti ai bordi, la stanchezza, un colpo di sonno e addio…».

FINALMENTE “COSTRUIAMO INSIEME”

Invece, l’arrivo in Italia. «Un Centro di accoglienza, “Costruiamo Insieme”, come sentirsi in famiglia; una nuova vita, dignitosa, con il primo dei princìpi previsti per un essere umano: il rispetto; nessuno deve essere carne da macello, siamo tutti i uguali, tutti fratelli. Una volta in Italia, mi sono messo sul mercato: ho cominciato a chiedere in giro se qualcuno cercasse un muratore, un elettricista, personale per le pulizie; un signore mi ha chiesto: “Ma fai il portavoce? Dove sono tutti questi tuoi amici? Sei di un’agenzia?”: sono il datore di lavoro di me stesso, ho risposto…».

Finalmente un sorriso. Una passione, Ismail. «Il calcio, è la cosa più socializzante che esista in Costa: basta poco, uno spazio, quattro canne per segnare le porte, una palla o un po’ di stracci messi insieme». Non si fa mancare niente in fatto di tifo. «Tengo per Juventus, Real Madrid e Chelsea, una squadra per ciascun campionato – ride Ismail, ripensa a una finale di Champions – seguo con distacco. Juventus e Real in finale, una di fronte all’altra, io l’unico a guardare quella gara con serenità: avesse vinto una o l’altra per me sarebbe stata la stessa cosa; mentre i miei amici si spellavano le mani per il nervosismo, io ero tranquillo…».

Come ha passato i primi mesi italiani. «Nei ritagli di tempo, un po’ la tv, il cinema a Lama: mi piacciono gli action-movie e i cartoons, ma su tutto adoro le relazioni con la gente; dopo una lunga sofferenza, voglio recuperare il tempo perso e incontrare solo sorrisi…».