GRAZIE A COSTRUIAMO INSIEME, Idrees, operatore, si racconta
«Mi hanno restituito dignità. Ero fuggito dal Pakistan, da guerre etniche e faide familiari. Poi via dalla Grecia e dall’intolleranza. Il viaggio Patrasso-Otranto, l’Italia. A Milano e Roma una delusione dopo l’altra. A Taranto, a sgobbare quattordici ore al giorno in un ristorante della Città vecchia: infine, con la cooperativa sociale, ho rivisto il sole…»
«La mia vita è cambiata in due ore e venti minuti!». Tanto ci mette un’imbarcazione con tre motori e quarantasette passeggeri ad arrivare dal porto di Patrasso a Otranto. Dalla Grecia all’Italia. Idrees, pakistano di Makiana, villaggio a un fiato da Gujrat, da due anni operatore della cooperativa “Costruiamo Insieme”, sintetizza la sua storia. Parla inglese, greco, hindi, urdu, naturalmente italiano. «Parto dalla Grecia, arrivo in un porto, quasi in un soffio – ricorda – tanto che giravo e rigiravo fra le case ai bordi della spiaggia sulla quale eravamo sbarcati e mi domandavo se quel signore che ci aveva presi a bordo non ci avesse bidonato e riportato su una costa della penisola greca». Pericolo scongiurato. «Eravamo in Italia a Otranto!».
Racconta la sua storia Idrees, ventisette anni, da undici in giro per il mondo. «Nel mio Paese era guerra fra gruppi etnici, ci si ammazzava per qualsiasi cosa, anche per dissapori vecchi un secolo. “Al nonno di mio nonno mancarono di rispetto: va’ e fai giustizia!”, questo raccontavano gli anziani a noi ragazzi, una generazione che, invece, ha voluto smarcarsi da pregiudizi, rancori, faide familiari mai dimenticate».
Una spirale di odio senza fine. Da certe parti si nasce già con una missione, “fare giustizia”. Non si sa in nome o per conto di chi o che cosa, l’obiettivo è affermare comunque il senso di rispetto. «Una famiglia dovrebbe conquistarsi il rispetto con il sangue: è questo il principio dal quale io e mio fratello, invece, siamo fuggiti e, come noi, tanti altri miei giovani connazionali: su quella barca, guidata da un vecchio militare greco, un personaggio che sembrava uscito da un racconto di Hemingway, avevamo trovato posto in quarantasette; due ore e venti minuti il viaggio, avevo un orologio al polso, un riflesso condizionato il mio, vidi che ora fosse alla partenza da Patrasso; stessa cosa all’arrivo a Otranto: non mi sembrava vera la fuga dalla Grecia».
ARRAMPICATO A UN ALBERO
In Italia, caccia allo straniero. «Arrivarono pattuglie di carabinieri, qualcuno li aveva avvisati sullo sbarco: i militari accerchiarono il gruppo, la paura – che qui fa novanta – aveva contagiato anche noi; “Vuoi vedere che siamo caduti dalla padella alla brace?”, ci dicevamo: e se ci rispedissero direttamente in Pakistan, dove ci danno per fuggiaschi? Non volevamo pensarci; gli uomini in divisa avevano avuto una soffiata giusta, ma non si trovavano con i numeri: contavano e ricontavano gli “sbarcati”, quarantasei, all’appello ne mancava uno». Idrees? «Sì, ero il quarantesettesimo, salito di corsa su un albero, la mia salvezza; i carabinieri mi passavano davanti, avevo una paura tremenda».
Breve passo indietro. Un Paese ospitale la Grecia, ma che in certe frange politiche no tollera lo straniero, specie se di pelle scura. «Ho lavorato quattro anni nei campi – riprende Idrees – facevo di tutto, il lavoro non mi ha mai spaventato, se c’è da fare una cosa la faccio: a costo di inventarmi un nuovo mestiere, non mi fermo davanti a niente! Quattro anni, trattato sostanzialmente bene, ma con qualche intervallo: non sempre i militari del posto facevano ricognizioni, controllavano i documenti, ma quella volta che qualcosa non gli garbava, erano guai: un mese, due mesi in galera». Una reclusione a pane e acqua. «No, pane e pomodoro! E quella razione di cibo dovevamo farcela bastare per un giorno intero. Non sapevamo quanto durasse la reclusione, fra noi ci facevamo coraggio pregando che quella esperienza drammatica finisse al più presto; poi gli episodi di intolleranza: non più una volta ogni tanto, ma ripetuti con maggiore frequenza, così io e un po’ di connazionali decidemmo che era arrivato il momento di fuggire daccapo: dopo la fuga dal Pakistan, quella dalla Grecia, in cerca di una qualsiasi occasione di vita migliore, anche sensibilmente meglio sarebbe stato già sufficiente rispetto a quello che stava diventando un altro inferno».
GRECIA, MONTA L’INTOLLERANZA
Episodi di intolleranza. «Accerchiati, diventavamo oggetto di sfottò, anche pesanti cui non rispondevamo; le nostre uniche armi erano le mani nude, eravamo in un altro Paese, ospiti, non potevamo certo ricambiare le attenzioni di buona parte della gente con la stessa moneta dei teppisti che invece ci aggredivano e commettevano atti vandalici. Teppisti impuniti, tanto che la cosa ci autorizzava a pensare che stessimo andando incontro a qualcosa di sempre più pericoloso per chi non era del tutto in regola con le leggi del Paese: la nostra forza-lavoro faceva comodo, ma qualche volta occorreva impartirci una lezione».
Come gli esami di eduardiana memoria, anche le fughe non finiscono mai. «Millesettecento euro per imbarcarci dalla Grecia e sbarcare in Italia, un porto sicuro secondo quanto dicevano in giro: nel Paese in cui eravamo ancora ospiti l’intolleranza aveva raggiunto livelli preoccupanti; unica soluzione: cambiare aria e scommettere quel poco denaro che avevamo messo da parte in una nuova speranza, così facemmo».
Avevamo lasciato Idrees appollaiato su un albero, a Otranto. «Ero rimasto in Italia e questa era già una buona notizia: connazionali mi ospitarono a Roma e Milano, cercavo lavoro, uno qualsiasi, purtroppo niente da fare; dovevo avere i documenti utili per potermi inserire nel mondo del lavoro: se il primo non sembrava un ostacolo, il secondo – un lavoro, per intenderci – era più complicato; passai per un Centro di accoglienza temporaneo, tornai a Taranto nell’agosto di quattro anni fa; trovai un lavoro, massacrante, ma non mi tirai indietro: ristorante in Città vecchia, uomo di fatica e pulizia, lavapiatti e cameriere: finito il primo mestiere attaccavo con il secondo, poi il terzo e via così, senza un attimo di sosta, mediamente quattordici ore al giorno; condividevo casa in città con un mio connazionale, finito il lavoro a tarda ora tornavo a piedi, chilometri, bel problema; specie quando aprivano il Ponte girevole per lavori, non potendo tornare per tempo dove abitavo, mi addormentavo su una panchina, a volte sotto la pioggia». Una vitaccia, finché un giorno non rivede un amico al quale è riconoscente. «La mia vita è cambiata da così a così – mostra il palmo della mano, poi il dorso della stessa – devo tutto a lui, già attivo con la cooperativa “Costruiamo Insieme”: documenti e contratto, finalmente mi sono accorto del sole!».