Yankouba, maliano, esperienza agghiacciante
«Altrimenti botte». Un classico quando si cade nelle mani di aguzzini. «Due mesi di lavoro, non ci davano da mangiare anche per tre giorni di seguito: guai a svenire…». Nessun titolo di studio, papà perso a causa di una malattia. «Sono stato investito vicino casa, poche cure e poi dimesso: trovassi un lavoro, soldi a casa per aiutare mio fratello piccolo a studiare». Riconoscente alla Marina italiana.
«Lavora e fai silenzio!». Nessuno si azzarda a parlare, i ragazzi di pelle nera rastrellati in Libia per strada vengono convogliati in uno stanzone di un edificio fatiscente. Porte enormi e, purtroppo, solide. Tanto robuste da impedire che a qualcuno, chiuso sotto chiave, possa balenare l’idea di aprire, scardinare in qualche modo quei portoni e scappare ancora, riprendere la corsa verso la libertà. Yankouba, maliano, diciannove anni, fede musulmana, ospite del Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”, racconta la sua storia. Simile, raccontiamo spesso, a quella di altri connazionali o amici per la pelle, nera, che i libici individuano con estrema facilità. Li catturano, come fosse una mattanza, li accerchiano, sempre con le cattive, mai con le buone. Senza mezzi termini, insomma, li spingono, per riunirli in spazi allo scoperto, cantine, edifici in disuso, masserie. Dormono, i ragazzi, in stalle, a un metro dalle bestie da accudire.
«A me e la gente catturata con me – racconta Yankouba – è successo anche di peggio: non solo botte, ma anche intere giornate senza toccare cibo; c’era chi non reggeva questo ritmo, sveniva, pregava il Cielo che queste tortura finalmente finisse: in un modo o nell’altro, che gli aguzzini si muovessero a compassione, gettando per strada i più deboli, oppure che ponessero fine a questa sofferenza, anche nel peggiore dei modi, con un colpo di pistola o di fucile alla nuca».
«Non sai mai da chi ti arriva un colpo di arma da fuoco – riprende il diciannovenne maliano – militari o civili, lì girano tutti armati; perfino i ragazzini, pericolosissimi, hanno in tasca una pistola: connazionali mi hanno raccontato di qualcosa come un gioco di società, “Se vuoi la libertà, scappa e non fermarti!”». Un tiro a segno, fatto di gare di precisione. Si misurano, questi assassini in erba, con la vita di questi ragazzi di passaggio e che hanno la sola sfortuna di cercare una via di fuga da persecuzioni. Stabiliscono chi è il più bravo, per così dire, a colpire un bersaglio in movimento. «Libia, tappa obbligatoria per tutti, la finestra che affaccia sul Mediterraneo e ci permette, non senza mille paure, e a costo di rimetterci la pelle, di cominciare a pensare a una vita diversa, lontano da persecuzioni politiche e dalla fame».
VIVA L’ITALIA E LA MARINA ITALIANA
Yankouba racconta un pezzetto della sua vita. Non lo fa volentieri, premette: prima e ultima volta. Non è severo, cerca comprensione. Del resto agli italiani sarà grato a vita («Sono riconoscente alla Marina italiana, ha raccolto me e decine di miei compagni in mare mettendoci in salvo!»). Non è facile trovare le parole. Spiega a gesti, ingoia a vuoto, gli occhi lucidi. Gli fa male ricordare certi passaggi, ma ci prova, accetta di liberarsene, ma è come se avesse ancora un coltello piantato nel costato e qualcuno glielo rigirasse. Quando siamo disposti a rinunciare, invece, Yankouba trova il coraggio nelle parole. «Non ho potuto studiare nel mio Paese, non ne avevo le possibilità: mio padre è morto per malattia, dopo una lunga sofferenza, lasciando mamma, me e un fratellino; è anche per quest’ultimo che voglio trovare lavoro, qualsiasi esso sia, dopo la Libia sono disposto a enormi sacrifici: guadagnare soldi e spedirli a casa, questo voglio fare, perché lui non patisca quello che ho passato io».
Perde il papà da piccolo. Una malattia curabile, forse sarebbe stata sufficiente una vaccinazione, seguire una profilassi, perché il papà di Yankouba fosse strappato a morte certa. Poche cure in Mali, lo stesso giovane diciannovenne è stato vittima di una scarsa assistenza sanitaria, zoppica. «I medici fanno quello che possono – dice – chi non può pagarsi le cure, ha la vita praticamente segnata; quattro anni fa sono stato vittima di un incidente: investito da un mezzo, mi hanno dato assistenza come potevano, poi mi hanno dimesso dall’ospedale nel quale ero stato trasportato; funziona così, ti rimettono in piedi come meglio possono, poi sono affari tuoi. Ho una leggera zoppia, avrei bisogno di un intervento per rieducare la gamba e, se nel frattempo non sono subentrate complicazioni, riprendere a camminare normalmente».
RESTO, LAVORO PERMETTENDO
In Italia per rimanerci, condizioni permettendo. «Dovessi trovare un lavoro – assicura Yankouba – ma uno qualsiasi, purché decoroso, non mi tiro indietro: al mio Paese, in Mali, lavoravo nei campi, concimavo terreni, mi dedicavo al raccolto».
Una vita non delle migliori. «Senza titolo di studio dovevo fare qualsiasi cosa, ma non mi sono mai tirato indietro: vivere fra stenti e vessazioni, ho preferito andare via, magari crearmi un futuro, guadagnare poco, ma mettere da parte quel denaro che potrei mandare a casa, per aiutare l’unico mio fratello, piccolo, a studiare; per lui vorrei che la vita non fosse così severa come lo è stata con me».
Torna in mente la Libia. «Dopo un viaggio fra difficoltà che non sto a ricordare, la Libia e due mesi da dimenticare: fermato insieme ad altre decine di fratelli neri, tutti al lavoro, a raccogliere olive, a spezzarci la schiena; poi, all’imbrunire, sorvegliati e reclusi in uno stanzone; un panino, nemmeno a parlarne, restavamo digiuni anche tre giorni di seguito; due enormi porte ci impedivano di andare via, scappare, come se non fosse bastata la fuga dal mio Paese; quando un bel giorno ci siamo dati coraggio gli uni con gli altri: abbiamo sfondato una delle due porte principali e via, non sappiamo nemmeno da che parte siamo scappati, abbiamo solo seguito l’istinto».
Ma anche in Libia qualcuno che ha cuore. «Tre mesi di lavoro – conclude Yankouba – per ripagare un uomo che ci dava assistenza, finalmente ci sfamava e ci aveva promesso che avrebbe provveduto a trovare un gommone sul quale imbarcarci: così è stato, mare aperto, una nave italiana in lontananza, finalmente salvi!».