Il futuro è la speranza
«Progetto, una parola grossa. Voglio riabbracciare moglie e figlie. Ho lasciato il Gambia a causa degli scontri sanguinosi fra etnie, ma sono finito nelle mani dei miliziani libici»
«Sono fuggito dal Gambia, il mio Paese, per evitare lo scontro insanguinato fra etnie, e alla fine sono caduto nelle mani delle milizie libiche: è proprio lì sono cominciati i dolori…». Come dire, dalla padella alla brace.
Per Lamine Jegne, ventidue anni, gambiano, moglie e due figlie, fede musulmana, da sei mesi in Italia, da circa due anni in fuga, i “dolori” non sono solo quelli fisici. Per sgombrare il terreno da equivoci su come si scrive il suo nome, tira fuori la carta d’identità, primo passo verso il permesso di soggiorno. Dolori, si diceva. «Danni psicologici devastanti, picchiato ogni giorno: l’unica cosa che potesse far smettere le botte era la mia promessa di procurare danaro telefonando a casa». E a Lamine non restava che promettere. «“Stanno raccogliendo i soldi, dovete avere un po’ di pazienza”», gli dicevo, sapendo di mentire. E loro, “Va bene, intanto te lo ricordiamo a modo nostro, ogni giorno!”». La sua fuga era anche dalla miseria, non solo dalle armi agitate dai militari ogni volta che, d’improvviso, si penetravano nel suo villaggio. «Quando sono stato fermato e imprigionato in Libia, temevo il peggio: non avevo lavorato, dunque non avevo soldi». Mostra i palmi delle mani nude. Vuote le mani, vuote le tasche. Anche un prigioniero intenzionato a comprarsi la libertà, sa che il destino può essere amaro se non hai i soldi necessari per il riscatto. «A casa, mamma e fratello, mia moglie con due bimbe da crescere, avevano appena i soldi per tirare avanti: nessuno avrebbe potuto mandarmi soldi, dunque nessuna alternativa: o restavo rinchiuso lì a prendere botte o provavo a fuggire rischiando una pallottola alla schiena».
«ADESSO O MAI PIU’»
Finché un giorno, Lamine, non ha preso il coraggio a due mani. «Adesso o mai più, mi sono detto; mi sono rivolto al Cielo, ho pregato lacrime agli occhi, rivedendo la mia vita come fosse un racconto, veloce anche quello: dovevo solo pensare a mettere chilometri sotto i miei piedi nudi senza più voltarmi. L’occasione si è presentata: i sorveglianti che te le danno di santa ragione fino a quando non vedono uscire il sangue, si sono distratti e io me la sono dato a gambe: finalmente ero un uomo libero!».
Ama parlare della moglie e delle sue due bambine, lui che un lavoro ce lo aveva anche nel suo Paese. Gli costava una levataccia al mattino, ma era il meno. Quando gli chiediamo se sente i suoi affetti più cari si commuove, gli occhi si riempiono di lacrime, ci vuole un attimo. «Al telefono, spesso; la prima, Djate, tre anni, l’ho tenuta fra le braccia; la seconda, Sose, è nata poco dopo la mia fuga: di lei conosco il pianto, il tono delle sue parole ancora incomprensibili; basta anche questo per farmi felice, per ora…».
LA MIA SECONDOGENITA, SOLO SENTITA AL TELEFONO
Un discreto lavoro in Gambia per Lamine. «Sono andato a scuola – spiega orgoglioso – ho preso un titolo di studio, l’equivalente di perito meccanico in Italia; è quello il mio lavoro: il meccanico, intervengo su auto, camion e bus; ogni giorno alle cinque del mattino ero già sulla strada, chiedevo un passaggio a chiunque si dirigesse verso il mio posto di lavoro, un’officina meccanica: mediamente ci volevano due ore di strada, se non trovavo qualcuno che mi accompagnasse prendevo il mezzo pubblico; una volta lì, se c’era lavoro, ci davamo sotto fino a quando non rimettevamo in sesto il veicolo: dividevamo quello che incassavamo; quando non c’era lavoro, restavamo a secco, dunque viaggio di ritorno a mani vuote: altre due ore di strada e a letto, sperando che all’indomani fosse meno peggio».
Il futuro non è un progetto. «E’ un’altra cosa, chiamala speranza: ricongiungermi alla mia famiglia, riabbracciare mia moglie e le mie due figlie. Da qui o dall’altra parte del Mediterraneo non importa, mi sta a cuore il futuro del sangue del mio stesso sangue: non appena avrò il permesso di soggiorno, avrò le idee più chiare, tornerò un mese a casa, ne parlerò con mia moglie; sarebbe bello trovare un lavoro qui, non necessariamente da meccanico: sarei disposto a fare qualsiasi mestiere, pur di assicurare un futuro alle mie piccole, Djate e Sose».