Alfa, trent’anni, ivoriano

«Conservo gelosamente la mia tuta da meccanico. Grazie a questa scampai a un campo di prigionia e trovai lavoro. Ho lasciato la mamma, conto di riabbracciarla presto. Il mio viaggio: tremila euro per salire su un gommone con quaranta di febbre…». Soccorso da una nave militare, è in Italia dallo scorso 11 luglio.

STORIE D 09 «La mia vita, una lotteria!». «Vinta!», racconta Alfa, ivoriano, trent’anni, perseguitato politico, sbarcato in Italia lo scorso 11 luglio. «Prima l’ho scampata bella in Costa d’Avorio, dove è sempre guerra civile; poi, in Libia, dove sono stato imprigionato a lungo, ostaggio di una banda di malavitosi che cercava danaro in cambio della mia libertà: eravamo in cento, in un campo, quando è arrivato un uomo, ben vestito, che fra tutti ha indicato me per portarmi via». Riscattato, Alfa. C’è un motivo. «Quel signore, che il Cielo lo assista ovunque sia in questo momento, mi ha visto con addosso la mia tuta da lavoro, quella di meccanico – me lo ha spiegato dopo… – e non ha avuto difficoltà a indicarmi ai miei carcerieri: voglio quello!».

Meccanico, Alfa. Non un meccanico di quelli che scivolano sotto le auto, svitano e avvitano bulloni. Ma di tir, bestioni meccanici che fanno un solo boccone di autostrade, provinciali e strade dissestate che siano. Non li ferma nessuno, se non qualche avaria, tanto da dare lavoro al suo datore e allo stesso Alfa. «Aveva un’officina, il mio benefattore, aggiustava auto ma soprattutto autotreni, camion con rimorchio; la meccanica mi ha sempre affascinato, un giorno mi piacerebbe aprire una grande officina per dare assistenza a chi ha bisogno di un’occhiata al motore del proprio mezzo: è il lavoro che facevo nel mio Paese dal quale sono scappato senza poter portare cose con me; se non il dolore nel cuore, per aver lasciato mamma: addosso la mia divisa da lavoro, quella di meccanico, che non volendo mi ha sottratto alle continue e inspiegabili torture e botte dei miei carcerieri».

Strana la vita di Alfa. «Fuggi da un Paese nel quale si può dire ci sia un conflitto al giorno, arrivi in un’altra nazione e ti accorgi che hai corso migliaia di chilometri verso la libertà, e che invece la strada da compiere è ancora lunga: ti catturano come fossi una bestia, ti spingono in un campo recintato e ti fanno sorvegliare da gente armata fino ai denti; è in certi momenti che ti chiedi se essere fuggito sia stata la cosa migliore da fare; morire lontano da casa non è una bella prospettiva».

STORIE D 01 Torniamo alla lotteria e alla ricerca della felicità. «A febbraio dello scorso anno – ricorda Alfa, tornando indietro nel tempo, usando pollice, indice, medio per contare i mesi di fuga – scappo via dalla “Costa”, lascio la mamma, le prometto di tornare a riprenderla e in un anno attraverso Burkina e Niger; arrivo in Libia, dove vengo bloccato con le cattive fino a quando non arriva il proprietario dell’officina in cui ho lavorato per guadagnare qualcosa; quei soldi mi permettono di pagarmi la traversata fino all’Italia: non importa se su un gommone, un altro mezzo di fortuna, lì non volevo restarci più! ».

Mette insieme quello che può, nel cuore la speranza e la promessa fatta alla mamma rimasta a casa. «Non sono sposato, non ho legami, è lei la mia famiglia, lei è stata a dirmi di fuggire perché malintenzionati mi stavano cercando per picchiarmi: è così in Costa d’Avorio, la guerra civile sembra finita, il vecchio presidente e sua moglie sono stati condannati per crimini contro l’umanità, invece chiunque si sente autorizzato a giudicare e condannare: la situazione è complessa, per questo sono venuto via dal mio Paese, è stata dura dove accettare tutto in pochi istanti e fuggire senza riflettere; un colpo di spugna al passato, senza pensarci su, ma con dentro un dolore che difficilmente riuscirò a cancellare: trent’anni, una vita!».

Finalmente Alfa mette insieme una buona cifra per pagarsi il viaggio. Cinquemila dinari libici, tremila euro. «Tanto mi è costato il biglietto della speranza, del resto anche qui, in Italia, dite “bere o affogare”: non c’era altra via di fuga da persecuzioni e torture, tanto valeva spezzarsi la schiena e mettere insieme un dinaro dopo l’altro».
STORIE D 06

Ricorda il viaggio per l’Italia. «Non so cosa mi fosse successo, avevo quaranta di febbre quando mi imbarcai, non potevo più rimandare il viaggio: o quella sera o mai più; sempre il mio “salvatore” mi mise in contatto con chi organizzava questi viaggi e mi accompagnò all’imbarcazione; rischiavo il collasso, tanto era alta la febbre: mi feci forza e, un piede dopo l’altro, salii a bordo del gommone per il mare aperto».

Era calato da poco il buio. «Dovevano essere le otto di sera quando partimmo, una immensa distesa di inchiostro nero, non ricordo altro: mare e orizzonte erano la stessa cosa, non si distingueva dove finiva uno e dove cominciasse l’altro; io ero su un fianco del gommone, mi riparavo dal movimento degli altri passeggeri che a causa dei movimenti bruschi dell’imbarcazione, rischiavano di metterti sotto i piedi; arrivò il mattino, prima il freddo, poi un caldo insopportabile, da stare male più di quanto già non soffrissi».

Una cosa, però, Alfa la ricorda. «Erano le 18 del giorno dopo la partenza, guardai il mio orologio da polso, l’unico bene che avevo, meno prezioso solo della tuta da meccanico».

Una nave militare italiana avvista il gommone con a bordo Alfa e un altro centinaio di passeggeri. Tutti a bordo. Il trentenne ivoriano viene sottoposto alle prime cure, giunge in terraferma con ancora qualche linea di febbre. «Oggi sono qui, il mio sogno nel cassetto è un’officina: indosserei la stessa tuta che mi ha salvato, se non fosse che la conservo gelosamente, forse le devo la vita. Anzi, senza “forse”…».