Benjamin, nigeriano, ventidue anni
«Nel mio Paese, a volte c’è più rispetto dei soldi che non degli esseri umani. Trovi sempre qualcuno disposto a falsificare un documento. Alla morte di mio padre sono stato costretto a fuggire: fossi rimasto in Nigeria, ci avrei rimesso la pelle». Sogna un autolavaggio o un ristorante.
«Problemi familiari…». Quando i “problemi” hanno carattere per così dire familiare, di mezzo c’è sempre un interesse. Anche il più piccolo, nel più sperduto dei villaggi africani, diventa un caso ciclopico. Muore un genitore: i parenti più prossimi, a cominciare dai fratelli dello scomparso, secondo leggi non scritte – e se lo sono si manomettono con estrema facilità – diventano automaticamente i naturali eredi di qualsiasi cosa fino al giorno prima sia stata proprietà del defunto. Eredi, con le buone o con le cattive. Con le buone: la famiglia del morto accetta in modo indolore il passaggio di proprietà dei suoi averi e mantengono un tetto e un pasto al giorno, pagandolo con il lavoro; con le cattive: via da tutto e, al minimo colpo di testa, l’affronto verrà “lavato” col sangue.
Lo racconta Benjamin, nigeriano, ventidue anni, da un anno e cinque mesi lontano da casa. «Ho dovuto fuggire – racconta – altrimenti avrei fatto una brutta fine; dalle nostre parti, dove la legge è solo un’idea di giustizia e le aule di tribunale sono il circolo dove malfattori e avvocati si danno appuntamento, non esistono mezze misure: “non fai il bravo”, sei il problema, non si discute, si va alla radice; una pianta, un albero, li elimini in un colpo solo: una sciabolata o un proiettile».
Brutta storia quella di Benjamin. Stavolta in uno dei villaggi all’interno della Nigeria, non si tratta di una setta che pratica sortilegi, indirizza malefici, stermina lentamente una intera famiglia con un veleno. Tocca ai terreni, unico bene a vista che il papà di Benjamin vorrebbe lasciare ai suoi cari, una moglie e due figli. «E invece – spiega il giovane che trova la fuga come unica soluzione per salvare la pelle – i fratelli di papà hanno fatto ricorso alla falsificazione dei documenti, d’accordo con qualche compiacente rappresentante delle autorità, e ci hanno espropriato dei terreni».
NON URLARE «ALLA TRUFFA!», RISCHI LA VITA
In Italia si fa opposizione. «Anche da noi, ma quando urli ai quattro venti che è una truffa e provi a mettere un avvocato, devi anche sapere che da un momento all’altro puoi aspettarti di tutto: se trovi un legale passabile, ti dice di fare le valigie e di scappare, altrimenti sono guai; c’è da temere il tuo stesso avvocato nel frattempo corrotto o minacciato di morte dalla controparte, quella che ha già corrotto altra gente e falsificato i documenti». Non finisce qui, Benjamin si oppone, quella truffa così evidente proprio non gli va giù. «E qui salta tutto – ricorda – fino a quel momento avevo fatto più o meno “il bravo”, ma ad un certo punto cominciavo a dare fastidio, così minaccia e fuga da casa, con la benedizione della mamma e l’ultimo, veloce abbraccio alla mia sorellina; negli occhi la rabbia e la disperazione a causa del taglio netto con il mio passato, quello che resta della mia famiglia, dopo la morte di papà: ora ci sentiamo per telefono, brevi chiacchierate, le conversazioni costano, ma l’importante è sapere che stanno bene».
Nella sua mente riecheggiano parole e preghiere della mamma. «Figlio mio, salvati, corri, va via: è una battaglia persa in partenza, stai solo imparando a spese tue che qui vale la legge del più forte!». «Ho perso il mio lavoro in una stazione di servizio – ricorda – contribuivo a sfamare la mia famiglia; mi occupavo del lavaggio delle auto: non guadagnavo grandi cifre, ma con qualche piccola mancia, qualcosa riuscivo a portarla a casa; poi una malattia, uno di quei mali che sembrano passeggeri, il fisico di papà non reagisce, la salute comincia ad abbandonarlo e, alla fine, il capofamiglia chiude gli occhi per sempre; le sue ultime raccomandazioni: fare attenzione alle nostre cose, la casa, un fazzoletto di terreno; papà aveva previsto tutto, anche che alla sua morte i suoi fratelli avrebbero falsificato i documenti per entrare in possesso di quel poco che avevamo».
IN FUGA VERSO LA VITA
La fuga. «Prima il ferimento: da noi ci mettono un attimo a passare dalle parole ai fatti, nessuno vuole sentire ragioni; se ti opponi, come ho fatto io, rischi la vita: me la sono vista brutta, sono stato picchiato e ferito; in condizioni quasi disperate sono tornato a casa, non avrei resistito a una seconda spedizione punitiva».
Non appena è stato un po’ meglio, Benjamin ha fatto quella sua “valigia”. Un sacchetto nel quale mettere un pantalone, una maglietta, del cibo e un po’ d’acqua. «Sono stato in Niger, poi in Libia, appena tre settimane, il tempo per organizzare la traversata in mare; altro problema: non avevo molti soldi, in quei pochi giorni ho arrotondato quella somma lavorando, tanto per cambiare, in un autolavaggio».
Deve essere un professionista della spugna e del sapone, Benjamin, se uno dei suoi desideri è quello di lavorare in una stazione di servizio. «In un autolavaggio, oppure cameriere in un ristorante: saprei fare bene uno e l’altro, non parlo in modo fluente l’italiano, ma in buona parte lo capisco, devo solo perfezionarmi, imparare a scriverlo, quella è una impresa, ma ci provo».
Impresa, viaggio dalla Libia all’Italia. «Messi insieme un po’ di soldi, mi sono imbarcato con decine di miei connazionali; undici ore in mare aperto, poi una nave mercantile ci ha issati a bordo; arrivati a Palermo siamo stati rifocillati, messi su un bus, destinazione Taranto».