KEDIRA – (I parte)
Per non deludere per l’ennesima volta un caro amico che fa il parroco in una Chiesa di un paese della periferia di Bari, ho partecipato, ad una festa organizzata dai migranti che hanno trovato accoglienza in una comunità che, per quanto piccola e periferica, ha saputo rispondere alle direttive dello SPRAR creando una rete di accoglienza che resiste da qualche anno. Solitamente evito questo tipo di situazioni perché, quando mi è capitato di parteciparvi, mi sembrava flebile la potenzialità di integrazione: era tutto bello. Tante cose nuove, dal cibo ai vestiti, la musica e la voglia di pensare di essere in quella casa che hai dovuto abbandonare o in una città che non c’è più. Ciò che mancava era il pezzo umano che doveva includere, la comunità, le persone.
La situazione nella quale mi sono trovato non è stata molto differente: migranti, operatori e poche persone che frequentano la parrocchia. Ma è stata importante! Il mio solo rimpianto è di non averci portato i miei figli.
Una bambina siriana di 12 anni, che in realtà non so se definire bambina, ragazza o donna, stringendo la mano al papà, mi ha chiesto perché fossi là. Di fronte alla domanda e alla padronanza della lingua italiana ho cercato un diversivo per non rispondere immediatamente: non potevo dire che ero la perché amico del prete. Avrebbe tolto qualsiasi senso alla mia presenza in quel posto. Un attimo dopo le ho risposto, quasi d’impulso, che ero la per conoscere, per sapere, per raccogliere storie che mi avrebbero fatto crescere per uscire dalla mia abituale e monotona dimensione fatta di persone che incontri tutti i giorni con le quali non hai quasi più nulla da condividere, per regalarmi un incontro capace di rigenerare la passione cronica di sapere, di conoscere senza mediazioni. Lasciando la mano del papà, un medico al quale si rivolgono tanti migranti che sopperiscono al grande problema della non conoscenza della lingua italiana, è tornata porgendomi un bicchiere con una bevanda della quale non conosco il nome. Con uno sguardo ha chiesto al padre se potesse parlare con me. Lui ha acconsentito e, prendendomi per mano, mi ha invitato a sedermi con lei a uno dei tanti tavolini rimasti vuoti.
Anche io ho ricevuto il regalo che a Natale nessuno mi ha fatto: Kedira. La prima cosa che mi ha detto è stato il suo nome e poi mi ha regalato la sua storia. Una storia, forse, come tante altre e meno tragica di quante ne ho ascoltate. Kedira e i suoi genitori sono arrivati in Italia quattro anni fa, scappati dal Califfato prima che fosse presa Mosul. Quando ho capito che ciò che stava per raccontarmi avrebbe in qualche modo segnato la mia vita, le ho chiesto se potevo registrare con il telefono la nostra conversazione. Mi ha detto, a soli 12 anni, che preferiva di no perché se il suo racconto era davvero importante come io dicevo mi sarebbe rimasto impresso nella mente e avrebbe trovato un posto nel mio cuore. D’improvviso si è alzata, chiedendo quasi il permesso di farlo con un gesto. Credevo dovesse andare in bagno. Invece no. Aveva notato che avevo solo sentito l’odore della bevanda che mi aveva offerto poco prima. E’ tornata a sedersi porgendomi un bicchiere di vino e mentre poggiava il bicchiere sul tavolo ha detto: “non devi per forza rispettare le mie regole. Io sono mussulmana. Tu no! Sei fai così mi fai sentire diversa. Hai detto che eri interessato alla mia storia, non che volevi cambiare la tua!”. Una bambina di 12 anni, in un attimo e con poche semplici parole mi ha ghiacciato. Non sapevo cosa rispondere, cosa dire di fronte a chi tranquillamente, con naturalezza, ti aveva poggiato su un tavolo tante cose insieme. Non un bicchiere di vino! Libertà di essere, libertà di pensiero, libertà di vivere. Tutte le cose che, negate, l’hanno costretta a lasciare il suo Paese.
Poi è diventata un fiume in piena con una voglia incontenibile di raccontare, mentre io appuntavo qualcosa su un tovagliolo di carta.