Latifah, nigeriana, il suo racconto, le ore drammatiche in mare

«Imbarcati su un gommone, ci rovesciammo in acqua. Lo persi subito di vista: eravamo una sessantina, ci salvammo appena in dieci. Volevo farla finita anche io, fui salvata in tempo. Adesso aspetto un bambino a cui darò il suo nome, non l’ho mai dimenticato: insieme sognavamo la libertà»

Si chiama Latifah. La incontro per strada, un pomeriggio, richiamato dalle urla che lancia all’indirizzo di un suo connazionale, presumo. L’uomo, un giovanottone di almeno un metro e ottanta, non appena sente alzare il tono delle grida della donna alza il passo e fa perdere le sue tracce. Svolta al primo angolo, si dilegua.

Latifah, nome che non ho bisogno di appuntare. E’ identico a quello di una nota cantante tunisina. La ragazza, che dice di avere trent’anni, incinta, è scossa, si ferma un attimo davanti a un bar. Entra nell’esercizio, si siede. Francesco, il titolare, le porta intanto una bottiglietta d’acqua. «Calma…», le dice, «Calma, ha il pancione, è incinta, non deve agitarsi…».

Il tono cordiale dopo qualche istante mette serena la donna. Parla inglese, ma anche l’italiano. «Non ce la faccio più – spiega – aspetto un bambino, ho perso mio marito Jaili quattro anni fa mentre fuggivamo dalla Nigeria per l’Italia: una volta nel vostro Paese avremmo deciso cosa fare, restare, chiedere assistenza, oppure proseguire per la Francia o la Germania in cerca di lavoro…».

La scomparsa dell’uomo ha fatto cambiare i piani di Latifah. «Eravamo giovani di belle speranze – dice la donna – sognavamo una vita diversa, libera, rispettati fra gente rispettosa, invece tutto è finito durante una notte: non erano ancora arrivate le prime luci dell’alba, quando il mare cominciò ad agitarsi, da tre giorni viaggiavamo a vista con un gommone che poteva portare sì e no venti persone: eravamo una sessantina, occhio e croce».

Foto Repubblica

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UN GOMMONE, FACEVA ACQUA

Il gommone non solo imbarcava acqua, veniva sbattuto da onde alte un palazzo di dieci piani, era anche sprovvisto di giubbotti, salvagenti o altri strumenti di salvataggio. «Una sciagura, quando siamo saliti a bordo di quello che un tizio faceva passare per scafo, abbiamo capito che dovevamo rivolgerci al Cielo perché tutto andasse bene: fra il restare in Libia, correre il rischio di finire nelle mani di qualche banda senza scrupoli, tentare la carta della fuga e il sogno della libertà, io e mio marito non ci abbiamo pensato su due volte: siamo saliti a bordo; un uomo raccoglieva da tutti, i soldi di carta senza contarli, più che fidarsi aveva un piano intesta».

La donna e il marito lo capirono quasi subito. «Si era rivolto a un ragazzo che faceva passare per il conducente dello scafo – ricorda Latifah – ma ripeteva troppe volte, “Tranquilli, fidatevi!”; comprendemmo che non era un navigatore esperto una volta in mare aperto: non aveva i soldi con cui pagarsi il viaggio e in cambio della traversata senza scucire danaro sarebbe stato disposto a portarci dall’altra parte del Mediterraneo…».

I problemi cominciarono il giorno dopo. «Avevamo appena lasciato Tripoli – riprende la donna – quando il ragazzo, un imbecille, tanto da prestarsi al gioco di quell’assassino che ci aveva messo nelle sue mani e a bordo di una imbarcazione così insicura che dopo due ore dalla partenza, cominciava ad imbarcare acqua: non avevamo secchi con i quali raccogliere l’acqua che penetrava; non era tanta, ma usavamo due bidoni e dei camicioni, con questi ultimi raccoglievamo l’acqua e poi li stringevamo in mare: pensavamo che questo sacrificio durasse un giorno, al massimo due giorni…».

Foto Blog di Viaggi

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MARE IN TEMPESTA

Invece, non andò così. «Una violenta tempesta rovesciò il gommone, tutti in mare, la maggior parte travolti dalle onde, finiti sott’acqua: restammo a galla non più di una decina, aggrappati a ciò che restava dell’imbarcazione, lontani gli uni dagli altri; io urlavo il nome di mio marito: “Jaili! Jaili!”, nessuna risposta, fui assalita dalla disperazione, volevo farla finita, farmi inghiottire io stessa dal mare, quando alle prime luci dell’alba noi superstiti, stanchi e impauriti, sentimmo il motore di una imbarcazione italiana che faceva sentire la sirena: mi sembrava di assistere quasi a uno di quei film nei quali arrivano i soldati accompagnati da uno squillo di tromba».

Le urla, il pianto, la creatura che nascerà a giorni. «Quell’uomo che si è allontanato è il mio compagno, non è un cattivo elemento, trova solo lavori saltuari e mi aveva chiesto soldi: abbiamo anche discusso sul bambino che nascerà e che rappresenterà un peso anche dal punto di vista economico: è stato uno sfogo, il mio, lui ha capito che aveva esagerato e si è allontanato chiedendomi scusa; non vedo l’ora di mettere il mio cucciolo al mondo: lo chiamerò Jail, come mio marito, perché quell’uomo con il quale sognavo una vita migliore non l’ho mai dimenticato».