Indogesit, nigeriano, trentotto anni

«Rapinato di continuo, un giorno ho denunciato i banditi: così è cominciato l’inferno. Minacciato, hanno cercato di uccidermi, vivo per miracolo; la fuga per evitare vendette contro mia figlia e i miei fratelli». L’aggressione, le gravi ferite, il lavoro, il viaggio, finalmente l’arrivo in Italia. «Da quel momento ho riassaporato la voglia di vivere».

Storie 05

«Queste cicatrici sul petto, sono tagli provocati dal collo di una bottiglia di vetro usato contro me, come fosse un coltello!». Indogesit, trentotto anni, nigeriano, cristiano, si scopre. Mostra i segni di una violenta aggressione subita dopo aver denunciato alla polizia locale i rapinatori che avevano fatto irruzione nella sua piccola agenzia immobiliare. «Per questi delinquenti era diventata un’abitudine – ricorda – la mia piccola attività, per loro, era diventato un bancomat!». Non ce la fece più Indogesit, li aveva ancora visti in faccia, sempre gli stessi, non ci aveva pensato su due volte a denunciare l’ennesima rapina, anche l’ultima era stata una violenta aggressione. «Non fanno complimenti nel mio Paese – prosegue – vanno subito al sodo: “Fuori i soldi!”, ti urlano; non ti danno il tempo di replicare, ti colpiscono con qualsiasi cosa abbiano fra le mani, di solito il calcio di una pistola, l’arma che dalle mie parti i malviventi indossano come fosse un qualsiasi accessorio, una cintura, un orologio: la stessa cosa; e di solito non la portano per abbellimento o solo per mettere paura: la pistola la usano!».

Una rapina, la denuncia, l’aggressione. La fuga da Calabar, il villaggio nel quale Indogesit aveva vissuto fino a quei giorni, campando dei magri guadagni che quella sua piccola attività immobiliare produceva. «Non ce la facevo più – dice Indogesit – mi recai al primo posto di polizia, denunciai l’accaduto, vidi lo schedario e indicai le facce di quei rapinatori tornati in agenzia a svuotarmi le tasche; gli agenti li rintracciarono presto, li condussero in carcere».

Storie 06

LA GIUSTIZIA, UN’IDEA ASTRATTA

Le cose da quelle parti, spesso non filano lisce. La giustizia, specie nei villaggi lontani dalle città, è un’idea astratta. E’, più o meno, un “tutti contro tutti”. Difficile distinguere i buoni dai cattivi, complicato fidarsi di un uomo in divisa piuttosto che di un avvocato. La corruzione è il pane quotidiano, a Calabar come nel resto della Nigeria. E se qualcuno non accetta soldi per tacere o voltarsi dall’altra parte, rischia la vita. E’ la storia di Indogesit, che poneva fiducia nella legge, ma che da quel momento entra in un incubo senza fine. «I rapinatori furono rimessi in libertà – ricorda con tutta la rabbia che ha in corpo – avevano soldi per pagare cauzione e avvocati; i legali facevano anche il lavoro sporco: venivano a trovarmi, mi minacciavano, secondo loro avrei dovuto rimangiarmi tutto quello che avevo detto circa la rapina: nemmeno per sogno!». Alla luce di quanto accaduto successivamente, mettendo a rischio la sua vita e quella dei suoi familiari, oggi Indogesit forse non lo rifarebbe. «A causa di quella denuncia – conferma – ho subito un’aggressione che mi stava costando la vita; quei delinquenti erano tornati per l’ultimo avvertimento: dalle minacce erano passati ai fatti, uno di loro perse le staffe, ruppe la prima bottiglia che gli capitò a tiro, impugnandone il collo come fosse un pugnale per scagliarsi contro me, il mio petto, con lo scopo di ammazzarmi; colpito ripetutamente caddi a terra, in fin di vita, loro fuggirono». Niente ospedale, non si sa mai. «Quelli non scherzavano, lo avevano già dimostrato: sarebbero venuti sicuramente a trovarmi, stavolta per chiudere definitivamente i conti; la paura aveva contagiato i miei familiari, non potevo più stare lì; strana la vita: ero la vittima, ma rappresentavo un grave pericolo per tutti!».

Indogesit non ha più i genitori, sono morti. Ha due fratelli più grandi e una sorella più piccola che oggi si prende cura di Ini, la sua figliola di dodici anni avuta da una compagna da cui oggi è separato. «Sento Ini – ci racconta, si emoziona – una, due volte a settimana: chiamo mia sorella, le chiedo come stanno, me la faccio passare per farle mille raccomandazioni; “Fai la brava, comportati cristianamente, ogni giorno leggi il vangelo….”, le dico».

Storie 03

LA FUGA, UNICO RIMEDIO PER SALVARE LA FAMIGLIA

La fuga, nonostante le ferite. «Non potevo più stare lì, troppo pericoloso, per me e per gli altri; così fuggii per la Libia, con lo scopo di imbarcarmi per l’Italia o un altro Paese; la prima cosa da fare era allontanarmi dal pericolo, con quei pochi soldi che avevo messo in tasca per trovare un gommone in partenza da Tripoli». La sfortuna non era finita. «Appena messo piede in Libia – continua Indogesit – fui imprigionato, due mesi di stenti, il dolore delle ferite e del cuore, aver lasciato mia figlia e il resto della famiglia mi bruciava; avevo la mente confusa, ma ancora viva l’idea che avrei dovuto farcela: una volta fuori feci qualsiasi lavoro mi capitasse a tiro, pitturazioni, giardinaggio, ogni occasione era buona per mettere in tasca soldi che mi sarebbero serviti per pagarmi il viaggio su un gommone».

Dopo tanta sofferenza, uno spiraglio. «A Tripoli l’imbarco, a decine stretti gli uni agli altri, il mare aperto, immenso, la paura che la rotta appena presa da quell’imbarcazione non fosse quella giusta, viaggiavamo a vista, senza una meta precisa: le preghiere e il sogno che da qualche nave qualcuno ci avvistasse e venisse a salvarci». La sofferenza per Indogesit sta per finire. «Ore terrificanti – conclude – fino a quando una nave francese non ci avvicinò per issarci a bordo: quella poteva essere la svolta, doveva esserlo. Arrivammo sulla costa siciliana, fummo soccorsi; fui accompagnato in ospedale, affaticato, le ferite sul corpo andavano curate nel modo giusto; rimesso in piedi, un bus per Taranto: da quel momento la mia vita ha ricominciato ad avere un senso».