Dino Paradiso, ospite di “Cabaret al Tarentum” e “Costruiamo Insieme”
«Spettacolo per tutti, se non ci capiamo, spieghiamoci a gesti, come ai tempi della commedia dell’arte. Rubo dal quotidiano, dal bar alla piazza, così nascono i miei monologhi. Nell’epoca del virtuale, riempire un teatro di pubblico è un piccolo miracolo…»
E’ uno dei personaggi più in vista della comicità televisiva, quella giocata fra Zelig e Colorado café, poi Made in Sud. E’ stato uno dei personaggi più applauditi in questo scorcio di “Cabaret al Tarentum”, tanto che a fine chiacchierata, lui, Dino Paradiso, cabarettista lucano di Bernalda, invita quanti non hanno assistito al suo spettacolo in cartellone, a rimediare tornando in teatro per ascoltare il suo lungo, divertente monologo.
Paradiso fa parte di quella rassegna domenicale che ha già presentato Oreglio e Terrafino. Il prossimo 26 gennaio ospiterà Alberto Patrucco e, a seguire, Renato Ciardo (16 febbraio), Tino Fimiani (22 marzo), Nando Timoteo (5 aprile) e Carmine Faraco (26 aprile). Direttore artistico è Renato Forte, fra i più dinamici sostenitori del cartellone, oltre al Comune di Taranto, c’è “Costruiamo Insieme”. La nostra cooperativa che fra le sue attività sociali si occupa di accoglienza, ad ogni spettacolo si fa rappresentare in teatro da suoi operatori e ospiti che mostrano di gradire l’occasione per farsi “quattro risate”.
Dino Paradiso, dunque. Uno che mantiene promesse e premesse, anche al netto di tormentoni e simili artifici per fare breccia nel pubblico televisivo.
«Promesse vere e proprie non ne ho mai fatte, lo sto scoprendo ora – sorride, Paradiso – certo, quello di intrattenitore è diventato il mio lavoro, tanto che me lo tengo stretto il più possibile, ma da qui a dire che tengo fede alle promesse e, di più, alle premesse, di tempo ce ne vuole ancora, e tanto…».
Paradiso, zero tormentoni.
«Non sfuggo al meccanismo dello studiare una frase che possa tornarmi utile come fosse un documento di identità ogni volta che esco in tv. Non c’è stata occasione, dunque non mi sento di condannare chi adotta una formula simile: il più delle volte è un’esigenza tecnica che ti viene suggerita: hai tre minuti a disposizione, sei in mezzo a trenta, quaranta colleghi e capisci che l’unico sistema per distinguerti dagli altri può diventare la frase-tormentone…».
E’ la dura legge della tv mordi e fuggi.
«Regole non scritte delle quali vieni messo subito al corrente: hai tre minuti, i primi venti secondi sono letali: tanto ci mette un telespettatore ad alzarsi dal divano, impugnare il telecomando e cancellarti dal piccolo schermo. Così ti tocca studiare, dare il massimo a cominciare dal momento in cui ti lasciano solo davanti alla doppia platea, teatro e casa insieme. Oggi è così, inutile andare tanto per il sottile, stai al gioco e accetti le regole…».
Quando parla, Paradiso ha l’abitudine di toccare l’interlocutore, un modo di fare molto meridionale.
«Viene dalla commedia dell’arte, ripresa da Dario Fo che ha reintrodotto il gramelot, modo di recitare che somma parole incomprensibili unite a gesti – strano, ma vero – che danno un senso compiuto a ciò che vuoi rappresentare; non sembra, ma pure per fare ‘sto mestiere devi studiare: io mi sono anche laureato, ma ci sono stati veri geniacci che hanno fatto a meno della scuola e hanno inventato codici espressivi e avuto grande successo; non per fare il saccente, le stesse maschere di Carnevale vengono dalla Commedia dell’arte; proprio Goldoni ha introdotto il copione: un italiano, a quei tempi, che si recava in Francia o Germania per portare in scena un lavoro, l’unico sistema che aveva per scatenare ragionamento e risata, era appunto il gramelot; per intendersi, nell’interpretare frizzi e lazzi “Arlecchino” faceva ricorso al linguaggio del corpo. Così a noi è rimasto il vizio di manometterci, diceva il grande Totò».
Uno dei suoi monologhi è un linguaggio del corpo studiato nemmeno tanto lontano.
«A casa mia, papà e una mia zia sorda a colloquio. Lui la fissa in volto, le parla a gesti, a voce alta e all’infinito, tipo “Io andare, tornare, mangiare…”: vorrei tanto sapere cosa balena nella testa di mia zia, che fissa papà e non gli dà del matto solo per educazione. Noi meridionali siamo cresciuti a gramelot…».
Paradiso e i suoi racconti.
«Mi piace scandagliare il quotidiano, partendo da normali espressioni, episodi che raccolgo fra le mura domestiche per poi allargarmi – quasi disponessi di cerchi concentrici – al bar sotto casa, alla piazza, al mio paese, alla città, alla regione… Alla fine, uno dei tipi che prendo di mira lo conosciamo tutti, perché i soggetti in causa non hanno una precisa cittadinanza».
Uno dei suoi cavalli di battaglia, la mamma.
«La mia è apprensiva, come tante mamme italiane. Sempre preoccupata, ogni tanto si sente un sospiro dalla cucina, accompagnato di solito da una frase, un concetto più o meno simile: “Stàteve attinde…”; fissa un punto impreciso, a terra, “Con tutto quello che si sente, figlio mio…”; non c’è margine di trattativa, perché se le chiedi il motivo specifico della sua preoccupazione, di solito chiosa con un “Eh, lo so io, lo so…”».
Si sente un po’ cronista dei sentimenti popolari.
«Il mondo sta nel popolo. Ho una mia visione politica, credo che lo spettacolo debba essere per tutti e non qualcosa di elitario. Non mi definisco un artista, ma credo che la “mission” sia fare in modo che tanti ti ascoltino e condividano. Il teatro è più attuale di ieri, è la necessità di incontrarsi fisicamente, considerando che oggi viviamo il virtuale. Ogni volta che un teatro si riempie di pubblico – poltrona, palco, teatro, attore… – è come se accadesse qualcosa di miracoloso: la gente fa una scelta precisa, vince la noia, acquista un biglietto, esce di casa, viene a sentirti e, di questi tempi, già questo è un bel successo…».