Friday Ebor, nigeriano, trent’anni
«Una volta in Italia, mi sono sentito come in famiglia», racconta. «L’esperienza nel mio Paese e in Libia, mi hanno segnato. Lavoro e dolore, fra i campi e negli allevamenti di bestiame. Voglio studiare, imparare, trovare un lavoro»
Un altro dei ragazzi del Centro accoglienza, un’altra storia. Storie simili, non uguali. Qualcuna scandita da drammi familiari, altre da fughe notturne, pestaggi, violenze di ogni tipo. C’è anche un lieto fine, quello raccontato da Friday Ebor, nigeriano di trent’anni. Arrivato in Italia con il solito gommone stracolmo soccorso da una nave di passaggio e un occhio malandato, il sinistro, a causa di una malattia. Contratta, non sa bene dove, nel suo Paese o in Libia, dove ha lavorato per un po’, il tempo di raccogliere le risorse per pagarsi il viaggio. Gli operatori di “Costruiamo Insieme” si stanno prendendo cura di lui, Allahssane non lo lascia un attimo. In una mano le richieste di una visita specialistica, nell’altra un cellulare. L’operatore chiama il medico, chiede quando sarà possibile sottoporre Friday a un’altra accurata visita di controllo.
Il trentenne nigeriano ha fretta di rimuovere certi ricordi. «Un anno e mezzo di Libia, anche io, come tanti connazionali, ho staccato il biglietto per l’Italia – un viaggio su un affollato gommone, con vista su nave spagnola prima, una militare italiana poi – lavorando sodo; alla fine, per come poi sono andate a finire le cose, mi ritengo pienamente soddisfatto».
Lavorare al buio, non sapere quanto tempo ancora dovesse spezzarsi la schiena, da mattino a sera. Non è una buona notizia, ma Friday, “venerdì” il suo nome tradotto in italiano, si dà da fare lo stesso. Dà il meglio si sé. «Sono stato impegnato nei lavori più umili – racconta – sono orgoglioso di quanto ho fatto: ho accudito animali di tutti i tipi, pecore, galline, cavalli; sveglia al mattino, all’alba, fra uno spiazzo infinito e qualcosa che somigliava a una stalla; lascia quel mangime e prendi l’altro; poi l’acqua, tanta, riempi i secchi e dai da bere a ogni animale; non mi lasciavano un attimo, quelle bestiole, mi vedevano come l’uomo della provvidenza: lo stesso effetto che ha fatto il comandante della nave spagnola che ha tratto in salvo me e i miei compagni su quel gommone di fortuna; pecore e galline, lo stesso i cavalli, mi seguivano ovunque fino a quando non erano sazi».
COMMESSO, CONTADINO, ACCUDIRE PECORE E GALLINE
Eloquente il gesto di Friday, che agita una mano. Un gesto all’italiana, quasi a dire «Mamma mia!». E, in effetti, non c’era tanto da stare allegri, specie quando convivi con una malattia che ti impedisce di vedere bene. «Non nascondo la paura – confessa – specie quando di occhi ne hai solo due e la vista è il bene più prezioso che tu possa avere, e pensi che possa accaderti di colpo un black out». Paura legittima, ma la storia cambia a partire dalla stessa Libia. «Un amico mi era venuto incontro: i medicinali per curare l’occhio me li procurava lui; non sapevo come sdebitarmi, mi rispose che non avrei dovuto preoccuparmi e che solo quando avrei trovato lavoro avrei saldato la mia riconoscenza; dunque, il lavoro: sveglia all’alba, un anno e mezzo circa di questa vita, accudire le bestie in cambio di due panini da mangiare durante la pausa, uno al mattino, l’altro la sera; è andata così, per tutto quel tempo…».
Passo indietro, Friday. Racconta la sua storia in Nigeria. «Lavoravo in un grande negozio, vendevo di tutto, dalle scarpe all’abbigliamento: ho fatto una buona esperienza, ho imparato le regole del commercio, anche se lavoravo per altri; il rapporto umano, le soddisfazioni, fino a quando la politica nel mio Paese cambia tutto; non circola più lo stesso danaro, la gente rischia di morire di fame: una famiglia non ce la fa più a vivere, nemmeno discretamente, si abitua anche a mangiare qualsiasi cosa una volta al giorno». Insomma, Friday perde giocoforza il posto di lavoro. «Mi hanno mandato via – dice – i proprietari dell’attività per la quale lavoravo non avevano più risorse economiche, le tasse portavano via tutto; l’unica cosa che restava da fare, andare a lavorare nei campi, con mio padre: lui, in qualche modo, faceva da garante per me, ma la storia è durata solo due anni, poi papà è morto, lasciando soli me, mia sorella e mia madre».
RESTEREI IN ITALIA, IL LAVORO NON MI SPAVENTA
Comunicazioni non del tutto interrotte. «Sento mamma e sorella quando è possibile, non sempre mi è possibile usare il cellulare; però le cose essenziali riusciamo a dircele, almeno da quando sono in Italia: quando ero in Libia, purtroppo non funzionava così, con i miei familiari era complicato e costoso sentirsi, soldi non ne vedevo, figurarsi cellulare e ricarica telefonica».
In Italia per restarci. «Sto qui da due mesi – spiega – l’italiano sto imparando a leggerlo, seguo con i miei compagni il corso di alfabetizzazione che svolgono all’interno del Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”; quando qualcuno mi parla riesco già a capire le cose principali di un discorso; a parlarlo, l’italiano, è ancora un po’ complicato, ma comincio a provarci».
Friday prende il primo giornale che gli capita fra le mani. Legge le pubblicità, lettere in maiuscolo e caratteri robusti. E’ a buon punto. «Mi piacerebbe restare in Italia – rivela – trovarmi un lavoro qualsiasi, non ho paura: l’esperienza nel commercio, nei campi e nell’azienda nella quale accudivo animali, mi sono servite; l’impegno è il massimo: voglio imparare l’italiano e studiare, guarire al più presto l’occhio malconcio e poi trovarmi un lavoro, questo Paese sta diventando il mio sogno».