Soulemane, guineano, la sua “lingua”

«Ho imparato prima il linguaggio del corpo, poi la vostra lingua». E mima colazione, panino, mare, fermata d’autobus. «I miei genitori, a malincuore, mi hanno spinto lontano dal mio Paese, ma non sono fuggito solo dalla Guinea, sono scappato via anche dalla Libia…»

«Non chiedetemi se un giorno mi sentirò sereno: difficile, avendo provato per colazione, pranzo e cena solo botte», dice Soulemane, ragazzone guineano che non abbassa lo sguardo, accenna appena un sorriso. Anche questo suo modo di relazionarsi, mandare in avanscoperta il suo sorriso, come a dire “amico!”, gli costerà caro nel suo Paese e altrove. Non in Italia. I gesti, il sorriso, gli italiani. Impara in fretta la comunicazione, il ventiquattrenne guineano. «Gli italiani gesticolano e tanto – spiega, rispolverando un sorriso che per lungo tempo ha tenuto, spento, in un angolo dell’anima – ma capisci dal tono della voce che per te, come per chiunque, nutrono rispetto: me ne sono accorto appena dopo qualche settimana che ero arrivato in Italia, due anni fa; mi parlano piano, alzano il tono della voce, scandiscono bene le parole, come se fossi un alunno di scuola elementare: è bello tutto questo, ti danno l’impressione che fino a quando non li avrai compresi, ti ripeteranno il concetto e sempre con tanta pazienza: tono lento e voce alta e, soprattutto, a gesti; questa la prima cosa che ho imparato e adottato: gesticolare aiuta, così mano a mano che facevo progressi nel mio italiano – conosco il francese, la lingua ufficiale del mio Paese, ma anche dialetti arabi – imparavo il linguaggio dei gesti…».

Sorride, Soulemane. Finalmente. Ci dà l’impressione che non voglia fare un passo indietro nel suo passato. Quasi che prenda tempo. E, allora, comunicazione per comunicazione, gli concediamo il racconto che ha nella testa. «Non conoscendo una sola parola di italiano – riprende – ho imparato subito decine di gesti, che è un po’ come imparare un’altra lingua, ma più velocemente: chiedere dove è possibile fare colazione, mangiare un panino, andare a mare, dov’è la fermata di un bus…». Muove mani e braccia, ci insegna gesti dei quali avevamo perso traccia. E’ vero, per chiedere dove sia il mare, basta mimare una “nuotata stile libero”. Ce lo facciamo ripetere, è adorabile Soulemane. Ha pazienza. Quel modo di gesticolare, è il suo esperanto, la cosiddetta lingua artificiale fatta di poche centinaia di espressioni.

VIENI DALL’ITALIA…

«Quando ho imparato l’italiano tutto mi è sembrato più semplice – confessa – ma ormai non riesco più a fare a meno di accompagnarmi con i gesti: sono sicuro, se un giorno incontrassi connazionali o fratelli africani, capirebbero dal modo di parlare da come mi accompagno con mani e braccia, che sono stato in Italia».

Bene, dell’accoglienza e del suo inserimento, a furia di segni, percorso favorito anche dalla cooperativa “Costruiamo Insieme”, ha parlato. Ora deve raccontarci un pezzo della sua storia. Non fa piacere trasformare un sorriso in una espressione seria, corrucciata, ma serve a tutti ricordare. E’, forse, il sistema per guardare al futuro in modo più sereno, come a dire che il peggio è passato. «Vengo dalla Guinea – racconta Soulemane – un Paese dove insiste un conflitto fra quella parte che i fondamentalisti chiamano “parte sana” della Guinea e il resto della popolazione: la razza pura sono i guineani, gli altri sono “gli altri”. E basta solo questo perché scatti la presunta offesa, e a questa faccia seguito il pestaggio. Ne so qualcosa io, che alla fine sono stato invitato dai miei genitori a fuggire via: ogni giorno tornavo a casa pieno di ferite e sporco di sangue».

Militari e milizie, civili con armi in pugno che fanno il lavoro sporco. «Non puoi alzare lo sguardo, che ti circondano. E con un pretesto qualsiasi ti provocano e cominciano a picchiarti fino a quando non vedono il sangue: colpito con il calcio di una pistola o di un fucile; i miliziani circolano sempre armati, fucile a tracolla e pistola infilata nella cintura dei pantaloni, ti accerchiano e te le danno di santa ragione: i guineani “puri” – anche io sono orgogliosamente guineano, ma non come intendono loro… – assistono allo spettacolo, “gli altri” scappano via, tante volte a seguire toccasse anche a loro».

ADDIO A MAMMA E PAPA’

Papà e mamma spingono Soulemane alla fuga. «Meglio saperti lontano con un sorriso e con la voglia di vivere, e non tenerti qui, dolorante e addolorato, una continua maschera di sangue!», gli dicono. E io, a malincuore, scappo. Arrivo in Libia, dove pensavo che qualcosa fosse cambiato rispetto alla Guinea, invece no: circondato e picchiato ancora, otto mesi prigioniero in un campo, solita richiesta: denaro. Secondo loro, chi scappa deve averne o può farselo spedire dai familiari per pagare il suo riscatto, la sua libertà; nove mesi di inferno, non sapevo quanto durasse la reclusione, ero scappato dalla minaccia di una pallottola nella schiena e lì, in Libia, rischiavo di fare la stessa fine: un pasto al giorno, non sapevamo cosa fosse una minestra, solo pane e acqua, nient’altro».

Con alcuni miei compagni fuggii, un viaggio in mare e finalmente l’Italia. «Il sorriso della gente, una stretta di mano, una pacca su una spalla, come se avessi compiuto un atto eroico: in realtà potrebbe essere considerato una resa, ma non è così; lasciare genitori, familiari e amici lì, non mi ha fatto e non mi farà mai stare bene; da solo, però, non avrei mai potuto fare rivoluzioni, così sono fuggito due volte: prima dalla Guinea, dalla Libia. Finalmente l’Italia, il significato di serenità e il rispetto, due cose che hanno un valore senza prezzo!».