Saibou, diciannove anni, senegalese
«Se ci ripensi, la ragione ti assale. A sette anni studiavo in collegio, dalle cinque alle dieci del mattino, poi nei campi a lavorare, la sera daccapo la testa sui libri. Un titolo di studio in Educazione finanziaria, oggi imparo a fare il cuoco, provo a cucinare riso, patate e cozze…»
«Tutte le mattine sveglia alle cinque, un insegnante ci spiegava il Corano e altre materie, alle dieci a lavorare, dopo una intera giornata il ritorno al villaggio, una doccia, ancora lezioni fino a sera, infine a letto: il giorno dopo stessa storia…». Saibou, diciannove anni, senegalese, fede musulmana, il suo è il nome di uno dei profeti dell’Islam. Parla arabo e francese, un discreto italiano che lo sta conducendo dritto agli esami di un biennio scolastico. Racconta la sua vita da bambino in collegio. Vive per un po’ di anni a Matacossi, un villaggio di centinaia di anime, ai bordi della savana. «A sette anni – ricorda – mio padre mi mandò in collegio per studiare, sgobbare fra banchi e campi fino ai quattordici anni: in famiglia non avevamo grandi risorse economiche così – come altri miei compagni – ripagavo le lezioni lavorando nei campi: un ritmo incessante, se ci ripenso mi chiedo come abbia fatto a farcela; ma una risposta me la do: forse questione di abitudine. Forse…».
Sottolinea l’incertezza, Saibou, magro, statura media, un fisico difficile da spendere nei campi. «Ho conseguito il titolo di studio in Educazione finanziaria, forse nel mio Paese ha valore, qui è complicato trovare un lavoro, specie se consideriamo che il sistema finanziario in Europa rispetto a quello africano è altra cosa, così ho approfittato dell’occasione prospettatami dal Centro di accoglienza del quale sono ospite, “Costruiamo Insieme”: un corso di cuoco, a Noci, sto imparando a conoscere la cucina italiana e non solo…».
«VA’ A CERCARTI FORTUNA!»
Passo indietro per Saibou. In Senegal non è un bel vivere, c’è povertà, finito il ciclo di studio torna a casa. Lo attende un’amara sorpresa: i suoi genitori separati, Saibou sceglie di andare a vivere con il papà. Starebbe bene, se non fosse che la nuova compagna del genitore non lo vede di buon occhio. Ogni giorno gli urla di andare via da casa, di cercarsi fortuna. «Non era un bel clima familiare – ricorda – mi impegnavo in qualche lavoretto, ma era poca cosa rispetto a quello che la donna pretendeva: mio padre che non prendeva posizione, lasciava che fossi investito di insulti, così all’ennesimo rimprovero presi le mie cose e andai via».
Ha un fratello, Saibou. «Boubacar, ha trentatré anni, fa il sarto, è molto bravo, io però avevo fatto tutto un altro percorso, mio padre voleva fare di me un intellettuale: a sette anni devi obbedire ciecamente ai genitori, così andai in collegio: quegli studi mi sono serviti per imparare molte cose, quella che in Italia chiamate “educazione civica” per esempio, e altro ancora, tutto utile: però non ho imparato un mestiere; nel mio villaggio la conoscenza, il sapere, le arti filosofiche non ti sfamano».
Matacossi, un villaggio con poche centinaia di abitanti, a ridosso della savana. Una vegetazione fra erba e alberi, una distesa enorme. «Mai visti leoni, elefanti, rinoceronti spingersi verso le nostre abitazioni: non so che dire, non so cosa sia un safari per esempio; dovessi dare anche in questo caso una spiegazione direi che forse gli animali ricambiano quel rispetto che noi abbiamo nei loro confronti». Quel “forse”, il dubbio fino a prova contraria, è figlio dello studio, della razionalità, del separare i fatti dalle opinioni. L’addio alla savana, al villaggio, un fazzoletto di terra, piccolo, stretto come quel gommone sul quale Saibou si sarebbe imbarcato mesi e mesi dopo insieme con altri nordafricani.
«Decisi di andare via – riflette Saibou – prima che qualcuno in un momento di rabbia mi indicasse la porta per andar via da casa: preparai quelle poche robe, salutai mio fratello, un abbraccio forte e via, senza voltarmi, tante volte mi fosse venuto in mente di tornare indietro; il coraggio è un momento, ti viene in un attimo, misto a incoscienza, se sai coglierlo ti aiuta a decidere: così andai via, verso la Libia, primo passo verso la libertà».
PARTENZA ALLE QUATTRO DEL MATTINO…
Abbiamo sentito e letto storie drammatiche. «Mi ritengo fortunato – dice – sì, ho sentito di guerriglieri, milizie, baby-gang, invece ho trovato gente disposta ad aiutarmi dandomi un lavoro e un po’ di soldi da mettere da parte per pagarmi il viaggio verso l’Italia: millecinquecento euro, tanti, ma la libertà non ha prezzo». Otto mesi a fare il pastore, accudire greggi, poi finalmente la somma e il contatto con uno degli organizzatori di quei viaggi “della speranza”. «Partenza alle quattro del mattino, centocinquanta su un gommone, stretti uno all’altro; la sfortuna che mi aveva accompagnato nel primo tratto della mia vita, fatta di studi, senza una famiglia, di colpo si era dissolta: fortunato a trovare il lavoro, a mettere insieme soldi a sufficienza per pagarmi il viaggio, nessuna rapina subita, infine gommone e rotta verso l’Italia…».
Finalmente gli stava dicendo bene. «Ho pregato perché andasse tutto liscio – ricorda Saibou – il cielo ha ascoltato le mie invocazioni e quelle dei miei “fratelli”: partiti alle quattro del mattino, alle dieci eravamo già a bordo di una nave militare danese, un miracolo! Ci hanno assistiti e accompagnati nel porto di Taranto, da allora tutto è andato per il meglio: questa la considero la seconda parte della mia vita!».
“COSTRUIAMO INSIEME”, LO STUDIO E UN CORSO DA CUOCO
La politica dell’accoglienza in Italia. «Con i ragazzi di “Costruiamo Insieme” mi sono ritrovato alla perfezione, ho iniziato un primo corso di studi, a giorni faccio gli esami di un biennio; nel frattempo a Noci, provincia di Bari, frequento un corso per diventare cuoco: so che c’è da imparare, da compiere un passaggio dopo l’altro, ma il peggio è alle mie spalle: dovrò fare il lavapiatti, imparare a imbandire tavola, disporre piatti e posate, la cucina può attendere: un passo per volta, per diventare chef c’è tempo…».
I “piatti”, il più semplice, il più complicato. «Spaghetti al pomodoro riuscirei a farlo a occhi chiusi: ho preso parte a solo quattro lezioni; quello che richiede più applicazione, dunque…». Prende qualche istante di tempo, chiede un aiutino, accende il cellulare, mostra le foto scattate ai “suoi” piatti, messi in bella mostra durante le lezioni a Noci. Ne indica uno, fra gli altri. Forse riso, patate e cozze. «Sì – sorride – quello lì, mi dicono di fare molta attenzione, uno che impara la cucina italiana e uno che vive a Taranto, non può sbagliare un piatto che da queste parti rappresenta il massimo della tradizione; più avanti verranno anche altri “piatti”, più complicati, ma è importante cominciare, e bene, dalle tradizioni locali, impararle a memoria, e riso, patate e cozze, è il lasciapassare della cucina tarantina».