Aboubakar Diaby, ventuno anni, ivoriano

«A quindici anni andai via dal mio Paese, ma fui truffato. Persi soldi, fui sequestrato: i miei genitori pagarono il riscatto. Ho fatto il muratore, partito per la Sicilia mi videro giocare: un provino, un tecnico, una squadra più importate, infine il Taranto. Sogno di indossare la maglia della Nazionale e fare un gol da dedicare a mamma…»

 

«Sono felicissimo, è un grande momento per me, non so come spiegarvi: avrò modo di farlo quando mi sarò goduto questa gioia in pieno». Il Taranto, la squadra nella quale gioca anche lui, è stato appena promosso in serie C, campionato professionistico. Aboubakar Diaby, ventuno anni, ivoriano, piange a dirotto per la commozione. C’è felicità e riscatto in quelle lacrime. Bacia il terreno di gioco, la maglia, abbraccia compagni e dirigenti. Il direttore sportivo Francesco Montervino, che lo ha fortemente voluto in maglia rossoblù; il presidente Massimo Giove, che ha dato carta bianca al “diesse” tarantino e che a sua volta ha ricambiato la fiducia assicurando una categoria più appropriata a una piazza come Taranto. Stringe forte Giuseppe Laterza, il tecnico che gli ha trovato la posizione giusta in campo. Il gioco passa dalla sua tecnica e dalla sua forza. Diaby ci ha messo poco a diventare un beniamino dei tifosi. Ha fatto diversi gol lo scorso anno, ne ha messo a segno uno in una gara importante come quella con il Palermo, serie C, campionato professionistico.

Ma torniamo al suo «poi vi spiego». C’è la sua storia in quel pianto a dirotto e quelle mani schiacciate sul viso a coprire le lacrime. Aboubakar Diaby, una pertica, un fisico straordinario, ha una storia da raccontare. E che storia. Come tanti ragazzi della sua età, talvolta più giovani, altre più grandi. Quella di un giovanotto che a quindici anni prova a dare una svolta alla sua vita. Non è facile andare via dalla sua Costa d’Avorio, dove anche “Abou” è una bocca in più da sfamare, e tentare la fortuna in un Paese vicino.

 

QUESTA E’ LA STORIA…

Questa è la storia di un ragazzone amatissimo a Taranto, si diceva, non solo dai tifosi della squadra di calcio, ma anche dalla gente comune. Qui sono tanti i ragazzi neri che circolano per strada, a qualsiasi ora. All’alba li vedi in bici, si dirigono nelle vicine campagne, a raccogliere pomodori, frutta e ortaggi, sotto un sole che picchia duro. Anche a mezzogiorno, spingere un carrello pieno di pacchi, fra generi alimentari e prodotti da sistemare negli scaffali; oppure nel pomeriggio, mentre aiutano un anziano bisognoso di assistenza; uscire dalla porta sul retro di un ristorante dopo aver rimesso a posto tavoli e sedie.

Sono i nostri ragazzi, africani che in poco tempo hanno cominciato ad entrare a far parte del tessuto sociale della città. Pagano il loro soggiorno con l’unica moneta che conoscono: il lavoro. Non si tirano indietro davanti a niente, se c’è da faticare non battono ciglio, si rimboccano le maniche e sotto col lavoro. Ecco perché Diaby e i suoi “fratelli” sono rispettati e amati. Diaby si è aperto al taccuino di un sito fra i più autorevoli del calcio, “gianlucadimarzio.com”. Fabrizio Caianiello, cronista, commentatore sportivo pugliese fra i più preparati, in queste settimane ha portato alla ribalta la storia del ragazzo ivoriano. E noi gliene siamo particolarmente riconoscenti.

«Mio padre – racconta Diaby – che ora non c’è più, ammazzato da una malattia che non perdona, voleva che studiassi, mentre io cercavo di conciliare studio e pallone: dalle mie parti quello che non manca è proprio lo spazio; non ci saranno magliette dello stesso colore per fare tornei o società che possano seguirti e darti una mano a crescere e, magari, a tentare a fortuna, ma di campi di calcio improvvisati ce n’è tanti. Così io provavo a sognare: l’unica cosa che dalle mie parti non costa niente».

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Archivio fotografico Aurelio Castellaneta

 

VIAGGIO, TRUFFA, LIBERTA’…

Papà Diaby fa il genitore, irreprensibile, prova a dare buoni consigli al suo figliolo amorevolmente caparbio, che intanto cresce, in altezza e nel fisico. E nella tecnica. Certo, è ancora acerbo, «ma il pallone cominciava a fare quello che dicevo io: lo colpivo e andava dritto nell’angolo, all’incrocio, alle spalle del portiere; alzavo le braccia, esultavo, mi dimenavo come fanno i grandi campioni visti in tv».

Non è stato facile convincere papà. «Devo a un suo amico che mi vide giocare, se il mio genitore si convinse e mi iscrisse ad una scuola-calcio: a patto che continuassi a studiare. Accettai, ovviamente, ero felice di averlo convinto che, forse, il mio futuro potesse passare da un campo di calcio…».

Ma non ci sono osservatori in Costa d’Avorio. Almeno non di quelli che fanno di un giovanotto promettente una stella. Anzi, c’è un gaglioffo, quello sì. «Mi promise un provino, mi chiese di imbarcarmi ed aspettarlo in Libia: meglio se gli avessi lasciato quei soldi che avevo messo da parte con grandi sacrifici. Cosa vuoi che ne sappia un ragazzo di quindici anni…».

 

…E UN SOGNO

Il sogno diventa incubo. «Arrivato in Libia vengo posto sotto sequestro, due mesi rinchiuso in una prigione, maltrattato, fino a quando i miei carcerieri non intascarono i soldi del riscatto dai miei: una volta libero cominciai a fare il muratore. Lavoravo per un maliano, mi prese a benvolere, fu lui stesso a suggerirmi di partire per l’Italia e non tornare in Costa d’Avorio dove la situazione non era delle migliori. Mio padre, purtroppo, non c’era più, aveva perso la sua personale battaglia con quel male che non perdona. Sbarcai in Sicilia, lì ripresi a vivere…».

Infine, l’arrivo a Catania. «Ripresi a giocare, fui notato da chi mi ospitava in una casa-famiglia, mi segnalò all’Aci Sant’Antonio, squadra di Promozione, fui preso: l’allenatore Alfio Torrisi, oggi al Paternò, mi dava consigli per migliorarmi. Un bel campionato, arrivarono le richieste, mi chiamò il Licata, dove andai di corsa, con la benedizione del tecnico, per me un secondo padre. Altro bel campionato, infine Montervino, Laterza e il presidente Giove. Lo scorso anno facciamo un bel salto, dalla D alla C, il mio pianto a dirotto, la mia vita che mi passa davanti come fosse un film, drammatico, ma con un lieto fine: pensai a mio padre, mia madre, il mio Paese». I desideri di Abou, infatti, non finiscono qui. Anzi, cominciano da qui. «Un giorno voglio vestire la maglia della Nazionale del mio Paese, fare un gol e dedicarlo a mia madre: è lei, oggi, la mia famiglia; lei e i miei compagni di viaggio, quelli che mi hanno aiutato nel difficile campo della vita e sul rettangolo di gioco».