Hikikomori, ovvero la fuga dalla realtà.

Di mode ferragostane ne sono passate tante, le abbiamo viste nei film e qualcuno, un po’ più grande anche nelle vecchie pubblicità.

Ricordate la pubblicità della Standa rivolta alle donne? «L’estate a portata di tutti! Costume intero per i tuffi: 6000 lire; bikini: 4000 lire; canotto grande: 10.000 lire».

Era il 1977.

Fino ad arrivare al topless che ha fatto di uomini e donne la moda di se stessi.

I tempi cambiano e anche le abitudini e le tendenze: la spiaggia era un luogo di incontro, di socializzazione, di esperienze: “Stessa spiaggia, stesso mare!” recitava il verso di una vecchia canzone a sottolineare che, a distanza di un anno, la voglia era quella di ritrovarsi, di rincontrarsi, di condividere un’altra stagione.

Ma sono passati davvero tanti anni da allora e la società ha avuto mutazioni così profonde da far pensare a tutto questo solo come un ricordo?

Questa settimana propongo una riflessione di carattere sociale su un fenomeno che, partito dal Giappone, sembra trovare sempre più spazio nei vuoti di socialità e di relazioni dei quali ci stiamo nutrendo e che, anche inconsapevolmente, contribuiamo ad alimentare.

Hikikomori! Ovvero, la trasformazione virtuale della realtà attraverso il distacco da essa.

E così diventano virtuali storie d’amore e relazioni di ogni genere all’interno di un processo di superamento estremo dell’umanizzazione dei rapporti fino al punto che la fidanzata diventa una applicazione scaricata sul telefono.

Ma chi sono i ragazzi definiti Hikikomori?

Il termine Hikikomori significa letteralmente “isolarsi”, “stare in disparte” e viene utilizzato per riferirsi ad adolescenti e giovani adulti che decidono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. La vita reale fatta di sguardi e incontri viene sostituita dai social e internet è l’unico strumento relazionale utilizzato.

Al momento in Giappone si parla di oltre 500.000 casi accertati, ma secondo le associazioni che se ne occupano il numero potrebbe arrivare addirittura a un milione (l’1% dell’intera popolazione nipponica). È evidente che si tratti di un fenomeno incredibilmente vasto, di cui ben pochi hanno mai sentito parlare, soprattutto al di fuori del Giappone.

Anche in Italia l’attenzione nei confronti del fenomeno sta aumentando. L’hikikomori, infatti, non sembra essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio, ma un qualcosa che riguarda tutti i paesi sviluppati del mondo. Secondo alcune stime (non ufficiali) nel nostro paese ci sarebbero almeno 100.000 casi.

Le cause possono essere ricondotte al carattere, alle dinamiche familiari, alla scuola.

Tutto questo porta a una crescente difficoltà del ragazzo nel confrontarsi con la vita sociale, fino ad un vero e proprio rifiuto della stessa. Ma, avendo l’Italia un tessuto socio-culturale profondamente differente da quello giapponese, questo disagio si manifesta anche in altre forme: la creazione di baby gang, la ricerca del brivido estremo in spregio alla vita, l’abuso di alcool e droghe, la messa in atto di gesti insensati.

Infatti, l’hikikomori è una modalità di espressione di un disagio che può variare da cultura a cultura e che potenzialmente può riguardare i giovani di tutto il mondo.

E le famiglie, per vergogna o ignoranza del problema, restano anch’esse sole, non cercano aiuto né hanno gli strumenti per affrontare la situazione.

Vi propongo la visione di questo video.