Extracomunitari e racconti agli studenti del “Cabrini” di Taranto
«Non sono tre righe in cronaca, ma bande prive di scrupoli che ti svuotano tasche e sogni. Ragazzini armati fino ai denti che ti sparano a vista. Fughe in mare aperto in cerca di futuro»
«Grazie dei pasticcini, ma siamo in Ramadan, per un mese dobbiamo fare astinenza, non solo di dolci, ma di qualsiasi cosa: solo prima del calare della sera possiamo mangiare, masticare un paio di datteri, ma non per saziarci, bensì per smorzare se possibile i morsi della fame». Istituto Cabrini di Taranto, seconda parte. Fra i protagonisti, ospiti e operatori di “Costruiamo Insieme”.
Le storie non finiscono mai, anche il periodo di penitenza è motivo di confronto a scuola fra i ragazzi-studenti e questi loro nuovi amici. Ragazzi come loro, sì, che però hanno da raccontare qualcosa in più. Se non altro perché non è storia di tutti i giorni scappare, sfuggire a colpi di fucile, coltellate, bastonate. Perché di questo si è anche parlato, diciamo anche appena accennato la scorsa volta. Per non spaventare troppo gli studenti con storie nude e crude. E qui sta la grazia, la discrezione di questi giovanotti neri che si presentano con aspetto austero, ma che i ragazzi smontano in un “amen”, non appena si parla di comunicazione, palmare, i-pad, internet. Figli della stessa generazione. Per giunta hanno in comune il Sud.
Proseguono, dunque, gli incontri degli studenti dell’Istituto professionale “Francesco Saverio Cabrini” di Taranto. Di fronte a curiosità e domande, ci sono Daniel, Alassane, Souleymane, Amara, Lawrenta e Devine. Qualcuno aveva partecipato all’incontro della settimana precedente.E’ la seconda prova di apertura al sociale a ragazzi come loro. Solo che gli ospiti, un sorriso contagioso che spicca sui volti neri come il carbone, vengono da lontano, da un altro Paese. Costretti a tagliare radici a malincuore, perché fuggire o comunque lasciarsi alle spalle affetti familiari, la propria terra, non è bello e non accade tutti i giorni. Merito della dirigente scolastica Angela Maria Santarcangelo, che ha voluto concretizzare un progetto didattico, «La grande “I”» («I», come integrazione). Un’idea di conoscenza realizzata in collaborazione con il CPIA, il Centro provinciale per l’istruzione adulti presieduto da Patrizia Capobianco e coordinato, come la settimana prima da Mercedes Corbelli.
Fioccano le domande. Anche stavolta. «Io volevo laurearmi in Ingegneria, sono andato via dal mio Paese per studiare, ma mi sono ritrovato in Libia in un momento di grave incertezza: non c’era più un governo stabile, bensì guerriglie armate, quelle che i giornali hanno definito guerra civile».
La guerra civile. «Tre righe in cronaca, nelle pagine degli Esteri», dice uno degli ospiti, mostrando conoscenza di una delle espressioni più care a giornalisti e politici. «Non voglio polemizzare, ci mancherebbe altro, ma se ragazzi come voi ci pongono spesso le stesse domande, vuol dire che i mezzi di comunicazione non spiegano bene cosa stia accadendo, non dall’altra parte del mondo, ma a mille chilometri da qui; la guerra civile non è solo un’etichetta: vuol dire episodi di violenza, bande di ragazzini armati fino ai denti che, se tutto va bene, ti svuotano le tasche di soldi e sogni, perché quel poco denaro che avevi guadagnato con mesi di lavoro sarebbe servito per pagare il viaggio dalle coste africane e quelle italiane…».
«Non vogliamo impressionare nessuno – prosegue un altro – ci mancherebbe anche passare per il “lupo nero” delle fiabe; ma quando ti va male, per questi ragazzi – che hanno dieci, dodici anni, sono più piccoli di voi… – sei solo un bersaglio mobile: ti dicono di scappare e tu devi scappare, altrimenti sono guai, ma guai veri!». E qui la cronaca di Daniel, Souleymane, Amara e Lawrenta, si autocensura. Non vogliono stupire i ragazzi raccontando il sangue. «Provate ad immaginare a un sogno e questo sogno altro non è che l’incertezza di arrivare sani e salvi su una costa amica; di notte il mare è impressionante, alle prime ore del mattino non è più incoraggiante: onde alte come palazzi ti sbattono come fossi uova per una frittata; quelle scene non durano istanti, ma ore e fanno paura anche a chi il coraggio se l’è fatto venire perché non aveva altra scelta che la fuga dalla morte».
«Puoi incrociare navi militari libiche, che ti riconducono a riva e mettono in prigione; non incontrare una sola imbarcazione, magari con a bordo pescatori che possono, invece, issarti a bordo e portarti su un mezzo almeno più sicuro di un gommone che imbarca acqua o può bucarsi da un momento all’altro». Infine, «Terra!», suggerisce un ragazzo con un sorriso. Il racconto, in effetti, mette ansia. Partiti dalle coste libiche, si è parlato di persecuzioni, di mare agitato, ma non ancora dell’ultimo tratto. Quel «sani e salvi» che è un po’ il finale dei temi di un tempo, una sorta di «stanchi ma felici». «Certo che arriviamo in Italia! Una nave militare italiana, dio la benedica, ci fa salire a bordo e conduce direttamente all’hot-spot di Taranto: da quel momento in poi la nostra vita ha assunto tutto un altro aspetto».
Vero. «C’è chi è ospite di un Centro di accoglienza, chi ha trovato un contratto di lavoro, chi fa l’operatore – come il sottoscritto, dice uno – con il suo stipendio e la voglia di costruirsi un futuro». «Non necessariamente in Italia – conclude un “fratello” – a me il vostro Paese piace, cordialità e accoglienza sono all’ordine del giorno, ma c’è chi vuole viaggiare ancora, chi tornare a casa, infine chi vuole costruirsi un futuro, con molti sacrifici e questa è una cosa che, con tutto quello che abbiamo provato, non può farci paura».