Lamine, ivoriano, sogna di fare il meccanico. Picchiato per soldi, in cerca dei suoi diritti. Fa il muratore, spiega “buiacca”, “fuga” e la felicità.

WhatsApp Image 2017-11-02 at 17.50.15Pacche sulle spalle, sorrisi e lunghi abbracci. Per fare una breve chiacchierata il protagonista della nostra storia, viene apposta al Centro di accoglienza straordinaria di “Costruiamo insieme”, in via Cavallotti a Taranto. E’ qui che incontra un po’ di amici, una decina forse. «Riabbracciare i mei connazionali», dice Lamine, diciannove anni a gennaio prossimo, ivoriano, «è come una festa!».Ha un sorriso e una parola per tutti, il giovanotto appena tornato da lavoro, con zainetto e sulla testa un cappellino rosso. Gli stessi colori della “Ferrari”, l’auto di Formula uno che sfreccia sui circuiti di tutto il mondo. Fare il meccanico è il chiodo fisso di Lamine, ma non per il Cavallino di Maranello, quell’obiettivo lo considera fuori dalla sua portata. Vola basso. «Mi accontenterei di riparare camion; ho da sempre in mente i motori, anche quando ero in Costa d’Avorio: studiavo, tanto, volevo imparare la meccanica, essere come il medico per il paziente…». Si aiuta a gesti, come se aprisse il cofano di un’auto. «Visitare un veicolo, vedere cosa non va e poi rimetterlo in cammino, sulla strada…».

Costa d’Avorio, Lamine perde il sorriso. «Penso con affetto alla mia terra, mia sorella, più piccola di me; mio fratello, appena più grande di me: sarebbe bello un giorno riabbracciarli, ora però devo pensare al mio futuro; incerto per gli italiani, figurarsi per chi, come me, qui è appena arrivato».

Faccio il muratore, ma la meccanica…

Cosa fa da qualche mese, Lamine. «Muratore, ma sto imparando: ha presente la “buiacca”, la “fuga”?». Indica i mattoni della stanza in cui stiamo chiacchierando. In particolare le righe. Spiega con scrupolo la tecnica. «Voglio imparare, tutto e in fretta, non so pensare a starmene senza fare niente, voglio guadagnare quel poco da mettere insieme e pensare di fare il meccanico, un giorno…». E se non facesse il meccanico, nessun dramma. «Anche il muratore va bene, ho colleghi splendidi, quattro in tutto, grande affiatamento: il sogno che inseguo è il lavoro, meccanico o muratore va bene comunque».

Insistiamo sulla Costa d’Avorio. «Avevo perso papà e mamma, uno dopo l’altro a causa di malattie per curare le quali occorrevano tanti soldi: senza quelli, i soldi, dalle mie parti non fai molta strada, non sopravvivi; guadagnare non è un’ossessione, ma per noi – come dite voi – è un’assicurazione sulla vita: i soldi sono medicine, cure, cose con cui combattere anche una sciocca malattia che, non curata, diventa il peggiore dei castighi…».

Dura la vita senza genitori. «Fino a quando è stato possibile sono rimasto con mia zia, sorella di mia madre; non era, però, la stessa cosa; discutevamo spesso, anche su argomenti banali che, d’un tratto, diventavano montagne da scalare». Per quanto ne sapeva, la libertà era comunque in un’altra parte del mondo. «Per me il mondo è Taranto, davvero, è qui che sono arrivato direttamente con una imbarcazione: non conosco il resto dell’Italia, qui resterei a vita…». Come meccanico. «Magari!», sorride Lamine. «Ma la vita non è necessariamente realizzare un sogno», insiste, «fare la cosa che più ti piace fare e guadagnare: la vita significa essere libero, sapere che non c’è solo gente che ti odia e ti picchia con i motivi più assurdi, come è capitato a me».

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Nove mesi di sofferenza, poi finalmente Taranto

Una viaggio lungo nove mesi. «Non finiva mai, passavo da un’auto a un bus: non appena avevo un po’ di soldi guadagnati in Algeria con il lavoro di muratore, mi compravo un “pezzo di strada”, un biglietto per viaggiare: pensavo alla mia libertà come a un diritto, una “protezione internazionale”».

Nove mesi di viaggio, il lavoro in Algeria, le botte in Libia. «Non distingui i buoni dai cattivi – racconta – quelli con la divisa qualche volta sono come quelli senza: fanno valere la loro autorità e, in nome di una giustizia che evidentemente non conoscono, ti trattano come carne da macello: quasi un mese da recluso in Libia». Tira un palmo indietro la sedia sulla quale è seduto, indica le ginocchia, i fianchi, poi i gomiti. «Mi hanno picchiato qua, qua e qua… Non finivano mai, in quei momenti rivolgi lo sguardo al Cielo nella speranza che le tue preghiere vengano ascoltate da qualcuno e che quella tortura finisca…».

Lo scopo sempre lo stesso. «Il denaro – conferma Lamine – quello che avrei guadagnato con il sudore della fronte per mesi loro volevano intascarlo in un istante: quel che è peggio, è che io quei soldi non ce li avevo davvero!».

Alla fine l’imbarcazione, il viaggio per l’Italia. «Taranto non sapevo nemmeno dove fosse prima che ci arrivassi, ma oggi la considero la mia terra, la mia casa». Nessuna paura in mare. «Cosa poteva capitarmi di peggio? Ero stato prigioniero, picchiato, privato delle cose più semplici: parlare, domandare educatamente, tenere la testa alta, guardare il cielo… questa è la mia libertà: poco importa che un giorno faccia il muratore o il meccanico!».