Tonio Attino, autore di un libro sul siderurgico tarantino
«L’industria siderurgica non ha futuro. Non sono un esperto, ma un osservatore. I nostri ragazzi non pensano a quell’insediamento che occupa un territorio in modo sproporzionato rispetto ad altre realtà. Quel racconto lo riscriverei allo stesso modo, nonostante fosse stato pubblicato alla vigilia del processo “Ambiente svenduto”»
Tonio Attino, giornalista, autore di libri, fra questi “Generazione Ilva”, diventato nel tempo una delle pubblicazioni più consultate da giornalisti, legali, magistrati che insieme, evidentemente con compiti diversi, hanno seguito il processo “Ambiente svenduto”. Una città contro, fra ambientalisti e difensori del posto di lavoro in una fabbrica che nel tempo ha raccontato di sé cose delle quali si era solo parlato. Mai sostanziando posizioni con accuse e prove, alle quali si è opposto il collegio difensivo di una industria per la prima volta seduta nel banco degli imputati con l’accusa di disastro ambientale. Attino, già ospite lo scorso anno con il libro “Il pallone e la miniera”, è tornato negli studi della cooperativa “Costruiamo Insieme” per parlarci di un’opera fra quelle che meglio hanno raccontato il rapporto città-industria.
Un libro, Generazione Ilva, ancora oggi un contributo per comprendere il rapporto fra industria e territorio.
«Un libro di sette anni fa, non freschissimo, anche se credo abbia una sua qualità, considerando che nel frattempo non è cambiato granché: non è terminato – ma nessuno aspettava la sua celebrazione – il processo per disastro ambientale, e credo che gran parte dello stesso andrà prescritto. Spero di aver dato un contributo per comprendere un po’ meglio una storia lunghissima e non ancora conclusa e che si evolverà – ancora non si sa come – visto che gli eventi non hanno ancora definito completamente lo scenario».
Come riscriverebbe “Generazione Ilva”?
«Esattamente come l’ho scritto: non lo dico per una forma di presunzione, tanto che mi sono annoiato a parlare ancora di un libro così vecchio, ma lo riscriverei esattamente così com’è. Quando mi capita di rileggerne alcune parti trovo che la storia sia quella e, purtroppo, non è cambiato nulla a distanza di qualche anno».
Cosa troviamo nel suo libro che non è scritto altrove?
«Ognuno è padrone di scrivere qualsiasi cosa gli pare, non sta a me giudicare quali siano pregi e difetti rispetto a quanto da me scritto: decideranno gli altri; penso piuttosto sia un bene avere un grande dibattito intorno a un tema così forte: se solo pensassi che a questo libro avevo lavorato già prima che nel 2012 esplodesse l’inchiesta giudiziaria – nessuno se ne preoccupava – aveva in mente una storia considerata esattamente inutile, al contrario diventata utile non appena esplose la vicenda giudiziaria; editori e giornalisti di solito si accorgono degli eventi solo quando questi accadono, senza anticipare scenari che, in questo caso, erano facilmente prevedibili».
Gira spesso con una serie di appunti, soprattutto numeri.
«Riguardano il confronto con altre attività industriali. Quando si parla di Taranto come area importante per il Mezzogiorno, per il Prodotto interno lordo, si dicono cose vere. Meno vere, però, rispetto a venti anni fa, quando l’incidenza dell’Ilva sul territorio era molto più forte; oggi, a parità di occupazione del territorio – ecco i numeri che riporto, perché non vorrei mi sfuggisse il benché minimo dettaglio – la fabbrica è grande come lo era negli Anni Settanta, anche se sono cambiati i numeri dell’occupazione: ai tempi dell’Italsider, erano oltre 21mila i dipendenti diretti del Centro siderurgico; con la privatizzazione e l’avvento del Gruppo Riva, il numero degli occupati scese a undicimila, recentemente con Arcelor Mittal a 8.200, mentre è in atto una lunga trattativa con il Governo, che ritoccherà ancora al ribasso il numero dei dipendenti impegnato all’interno della fabbrica».
Un numero calato vistosamente rispetto all’occupazione di un tempo.
«Continuiamo a parlare come se fosse la realtà di cinquant’anni fa. Non è così. Un raffronto che mi sta a cuore, per capire di cosa stiamo parlando: una grande realtà tedesca, la Wolkswagen, che ha sede a Wolsburg, è estesa per circa sei chilometri quadrati: ventunomila dipendenti, di fatto seicentocinquanta dipendenti per ogni ettaro; a Taranto, per intenderci, su quindicimila chilometri quadrati – dunque un’estensione superiore al doppio di Wolkswagen – 5,5 dipendenti per ettaro, che si ridurrà ancora in seguito alla trattativa Governo-Ilva. Esiste pertanto, un gigantismo che appartiene ad una occupazione urbanistica del territorio sproporzionata rispetto a cinquant’anni fa. E non ho parlato di risanamento, inquinamento, impatto sul territorio e sull’ambiente, in quanto do per scontato che un simile complesso sia difficilmente compatibile con la vita delle persone».“Generazione Ilva”, non appena uscito, ha più interessato o indispettito i tarantini schierati a favore o contro la chiusura dello stabilimento?
«Difficile scatenare un ragionamento, dal momento che si legge e si approfondisce poco, e si va spesso dietro ai pensieri dei social – interessanti anche – ma che talvolta non facilitano la comprensione di un simile fenomeno. Difficile anche che qualcuno possa indispettirsi di un libro non diventato un best-seller. Ma a qualcuno il libro è piaciuto, una profondità servita – a me per primo – a conoscere per comprendere un fenomeno così complesso».
Quanto tempo si impiega a scrivere un libro così documentato?
«Un paio di anni, ma non lavorandoci a tempo pieno, in quanto impegnato nella mia attività principale, quella di giornalista; ci avevo pensato anni addietro, in maniera diversa: ero alla vigilia della sua pubblicazione quando è scoppiata la vicenda giudiziaria, così ho perfezionato la parte narrativa».
Padre di tre ragazzi, che idea si è fatto confrontandosi con loro sul futuro di città e siderurgico?
«Come molti, non ho le idee chiare; i giovani, di sicuro, non si riconoscono più in una simile realtà: non solo non sono nati, come noi, negli anni della Grande industrializzazione; non sanno cosa sia l’Ilva e non vogliono conoscere il futuro del siderurgico tarantino; hanno orizzonti diversi e pensano a un mondo, purtroppo, sempre più lontano; quale può essere l’alternativa: di sicuro non più l’acciaio, lo stabilimento non ha più un futuro – lo dico da osservatore, non da esperto – nonostante l’impegno di economisti che ci spiegano dal salotto di casa come andranno le cose – e il più delle volte non ci azzeccano – ma penso che l’Ilva non abbia grandi prospettive; suicida, infine, l’atteggiamento della politica che cerca di porre rimedi temporanei passando il candelotto a chi verrà dopo per non assumersi la responsabilità dell’esplosione del tritolo: è invitabile, però, che questa avvenga, considerando una realtà in caduta libera negli ultimi cinquant’anni e sulla quale, ripeto, non conterei molto in futuro».