Mario Guadagnolo, ex sindaco, si racconta
«Ho visto extracomunitari cantare l’inno di Mameli con la mano sul cuore, meglio di quanto a volte fanno gli italiani». Per noi, il suo “Ai miei tempi…”: stadio “Iacovone”, Isola pedonale, Lungomare, Ori di Taranto. «La città fra Arsenale e acciaio, scelte condizionate dalla miseria».
«Vedere e sentire extracomunitari cantare l’inno nazionale con la mano sul cuore, per me è stata una delle esperienze umane più toccanti!». Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990, si racconta per noi. Prima sindacalista, poi attivista politico con il partito socialista, consigliere comunale, assessore e primo cittadino. Un calabrese innamorato di questa città, affascinato al punto da studiarla, scrivere saggi, libri di successo, ultimo della serie “Il Regio Arsenale Marina militare di Taranto”. Andiamo per gradi. Le diverse esperienze: professore, politico, sindaco, scrittore, quale l’ha gratificato di più.
«Quella di docente, la mia soddisfazione più grande, considerando le mie origini, figlio di un sottoproletario, bracciante di un Sud povero che più povero non si può. Ritengo sia stata una forma di promozione sociale guadagnata sul campo con studio e impegno. A seguire: essere stato sindaco di una città come Taranto, cosa che non capita tutti i giorni: sono stato fortunato ad avere incontrato tarantini che mi hanno offerto questo possibilità».
Primo cittadino in una sola parola.
«Esaltante. La cosa più bella che possa capitarti. Ricordo un episodio, anni fa. Incontrai un ex sindaco, Giuseppe Cannata, successivamente diventato senatore della Repubblica. Gli chiesi quale fosse stata la sua esperienza politica più gratificante. Non ebbe il minimo dubbio: fare il sindaco è qualcosa di unico; senatori ce ne sono tanti, il sindaco è uno solo: quando in una sala entra un senatore nessuno se ne accorge; quando entra un sindaco se ne accorgono tutti. Rappresenti la città, le aspirazioni, le speranze, ma anche difficoltà e ambasce di una comunità. Ciò detto, dirigere una città con difficoltà e disagi è una grande responsabilità».
Esperienza unica.
«Ti permette di vedere con un riscontro immediato le cose che fai. Un senatore, un deputato, partecipano all’elaborazione di leggi delle quali non ha immediata percezione, insomma non toccano con mano il loro lavoro. Quando passo davanti allo stadio di Taranto, ho la soddisfazione di poter dire “Quello stadio l’ho fatto io!”, lo stesso quando passo dal Lungomare, opera lasciata in eredità ai tarantini; l’Isola pedonale: quando vedo gente passeggiare in via Di Palma e via D’Aquino, gustarsi un gelato nella massima tranquillità, lontana da un traffico assordante, mi dico con orgoglio che anche quella intuizione è stata opera mia; e ancora, gli Ori di Taranto, esposti ad Amburgo, Parigi, capitale della cultura europea, Tokio, culla della cultura orientale, tanta roba…».
Differenze e similitudini nell’amministrare una città.
«Abissale. Intanto, fatti normativi. Esistevano altre leggi all’epoca della mia elezione a sindaco: era il Consiglio comunale che eleggeva sindaco e Giunta. Non era, dunque, un’elezione di primo grado, vale a dire il primo cittadino eletto direttamente dal popolo.
Ero soggetto agli umori dei partiti. Così come ero stato eletto, allo stesso modo potevo essere rispedito a casa in due giorni. Quotidianamente dovevi compiere un grande sforzo di diplomazia per tenere insieme una maggioranza. Qualcuno ancora oggi mi domanda come sia riuscito nell’impresa di tenere cinque partiti, non uno, insieme. Frutto di capacità politica e autorevolezza, farsi stimare, voler bene e altro ancora.
Il vantaggio della seconda legge, invece: eletto dal popolo, oggi se il sindaco si dimette, vanno tutti a casa e questo è un elemento fortissimo nelle mani di un primo cittadino. Ha il potere di assegnare e togliere deleghe assessorili; ai miei tempi, se avessi tolto un assessorato, avrei scatenato risentimento nel partito al quale il delegato apparteneva: la reazione poteva essere il ritiro dalla maggioranza e, dunque, tutti a casa. Il sindaco era in uno stato di soggezione rispetto ai partiti e ai gruppi, oggi è il contrario. E non è elemento da poco».
Fosse stato eletto lei direttamente dai cittadini.
«Qualche amico ogni tanto mi dice: “Avendo fatto cose importanti, all’epoca, nonostante i paletti posti dai partiti, a Taranto avresti compiuto una rivoluzione!”. Differenza sostanziale. Sindaco della Prima repubblica, cosa di cui vado fiero, un tempo prima di arrivare a Palazzo di città, dovevi aver fatto gavetta, avere una formazione culturale e politica importante; esistevano i partiti piuttosto che i movimenti, le sezioni anziché i comitati elettorali, questi ultimi oggi aperti e chiusi in un amen. Venivo dal basso: avevo fatto il sindacalista, il segretario del partito socialista, il consigliere comunale, l’assessore e, successivamente, il sindaco.
Oggi il sindaco è un professionista senza esperienza politica, è vittima diretta del burocrate. Ai miei tempi ero io che attraverso delibere dicevo ai burocrati perché certe scelte andavano fatte. Oggi è il contrario, è lo scadimento della politica».
Taranto, l’industria, dall’Arsenale all’Ilva. Appassionato dalla ricerca storica, ha pubblicato in questi giorni “Il Regio Arsenale Marina militare di Taranto”.
«Taranto, città condizionata dalla fine dell’Ottocento, da povertà, miseria, difficoltà; la prima industrializzazione nel 1870 è stata quella dell’Arsenale, la seconda nel 1960 dell’acciaio. Nella prima come nella seconda, Taranto è stata condizionata nelle sue scelte dalla povertà e dalla miseria. Il nostro destino poteva essere diverso, questa città poteva essere la Sorrento del Sud. Non dimentichiamo, che in antichità qui venivano a svernare Virgilio, Orazio, Properzio: per clima, amenità dei luoghi, i due mari, avremmo potuto avere un destino turistico e culturale diverso, di respiro mondiale. Fummo condizionati, invece, dalla miseria».
Tema dell’accoglienza.
«Sono per l’accoglienza, purché non sia disordinata. Il lavoro che voi fate come “Costruiamo Insieme” è straordinario, dimostra insieme nobiltà d’animo e dedizione. Mi sembra superfluo anche parlarne: apparteniamo a una sola razza, quella umana, pertanto i popoli a disagio hanno tutto il diritto di essere accolti da quanti stanno meglio; anche perché noi occidentali, specie gli europei, abbiamo un grande debito nei confronti degli africani: schiavismo, sfruttamento, imperialismo, colonialismo e altro ancora. Abbiamo cose da farci perdonare, dunque non facciamo tanto gli arroganti».
Un episodio in particolare.
«Vecchio politico, inni nazionali ne ho ascoltati a centinaia: invitato dall’associazione di Enzo Risolvo e dai Cavalieri della Repubblica, a spiegare la Costituzione a degli extracomunitari ho assistito a qualcosa di straordinario. Prima del mio intervento è stato intonato l’inno nazionale italiano. Bene, questi ragazzi si sono alzati in piedi e con la mano sul cuore hanno cantato “Fratelli d’Italia” in modo convinto! Ripeto, io che ho partecipato a tante occasioni in cui è stato eseguito l’inno nazionale, nel vedere e sentire questi ragazzi intonare le note del Tricolore in modo così serio – come spesso non capita a noi italiani, vedi la Nazionale di calcio… – mi ha toccato il cuore: con quel gesto, evidentemente avevano compreso di essere sbarcati in uno Stato nel quale tolleranza, democrazia e accoglienza, sono materia di grande civiltà!».