Corina, cinquant’anni, da trenta in Italia

«Felice di vivere nel vostro Paese. Quando sono arrivata qui, con mio marito, ho scoperto l’idea che gli italiani si erano fatti dei miei connazionali. Turni di lavoro faticosi, guadagni pochi, contributi nemmeno a parlarne. Ora la situazione sta cambiando, sensibilmente…». «Mi sono spezzata la schiena, ma mi sono arricchita dal punto di vista professionale e umano»

 

«Orgogliosa di essere filippina, in tutti questi anni in cui sono stata in Italia, ho potuto toccare spesso con mano l’atteggiamento che hanno gli stessi italiani hanno nei confronti miei e di quanti sono venuti qui dalle Filippine per trovare lavoro». Corina, filippina, cinquant’anni, sposata con un connazionale, due figli, un ragazzo di trentadue anni, una figlia di ventotto; il primo avuto nel proprio Paese, la seconda nata in Italia.

Molto impegnata nelle sue attività lavorative, Corina ha una vita sociale. «Sono cattolica, mi unisco in preghiera con i miei connazionali una volta a settimana, quando il riposo dall’attività lavorativa lo permette: lavoro molto, non conosco cosa sia un momento di sosta, ma ormai ci sono abituata; spesso sento storie di miei connazionali, ci sarebbe da mettersi mani nei capelli: non è giusto, come non è giusto che io sorvoli su certe cose solo perché io stare appena meglio di altri filippini».

Gli italiani come giudicherebbero i filippini? «Non generalizzo, ma in molti c’è l’idea che noi ci accontentiamo di poco e in cambio diamo tanto; il che è anche vero, trovare un lavoro di questi tempi è già tanto, ma far passare l’idea per abitudine possiamo lavorare dalle dodici alle quattordici ore al giorno, è completamente sbagliato».

Non ci si abitua mai a un lavoro pesante. «Invece è questo il concetto che passa: mi duole dirlo, sia chiaro non cambia niente rispetto al mio presente e al mio futuro se dico certe cose, ma non è giusto pensare “Questo lavoro facciamolo fare a un filippino, tanto quelli non s lamentano mai!”: “quelli” saremmo noi, abituati da sempre a dare il massimo nell’accudire una casa o una persona, per una forma di cultura e rispetto che abbiamo nei confronti del prossimo».

Non possiamo darle torto, Corina, ma cosa fa un filippino quando non lavora? «Bella domanda, intanto perché anche quando dovremmo avere un briciolo di riposo per tirare il fiato dalla stanchezza, troviamo il tempo di impegnarci: facciamo le pulizie nelle case altrui, cuciniamo, facciamo da badanti agli anziani, capisce che ci resta poco tempo; bene, questo lo impegniamo per accudire casa nostra: non viviamo in grandi appartamenti, la nostra filosofia è quella di un tetto sulla testa che ci consenta di vivere decorosamente».

 

DUE ORE DI PAUSA… 

Cosa fa lei, allora. «Rassetto casa, la tengo pulita come tengo tirate a lucido le case in cui vengo chiamata per occuparmi di pulizia, cucina, piccoli e anziani: è il minimo che devo fare, anche per rispetto nei confronti della mia mia famiglia e me stessa; quel poco che mi resta lo dedico alla preghiera, una volta a settimana incontro miei connazionali, ma anche altri italiani con cui prego e seguo messa; è un bel ritrovarsi, anche se il quelle due ore appena passano in fretta, non fai in tempo a accoglierti in preghiera che è già arrivato il momento di salutare gli altri fedeli, il parroco che ha celebrato messa e tornare al lavoro».

Una riflessione a voce alta, autentica. Ha ragione Corina. «Vede mai un filippino per strada o davanti ad una vetrina? Detto che siamo facilmente riconoscibili per colore della pelle e abbigliamento, ha visto mai un mio connazionale fermarsi ad ammirare un vestito o un paio di scarpe? Andiamo sempre di corsa, non fa parte del nostro modo di fare soffermarci per guardare una camicia o una gonna. E forse è proprio questo che trae in inganno gli italiani e non solo, perché ovunque i filippini vengono visti come instancabili lavoratori: eppure siamo piccoli, abbiamo un fisico simile a quello di chiunque altro, invece passa l’idea del “Facciamolo fare a loro, sono filippini!”, come a dire “Tanto cosa vuoi che li spaventi, sentano fatica…”. Non è così, siamo carne e ossa, creati a immagine e somiglianza di Nostro Signore».

 

…POI SOTTO, A LAVORARE

Quali esperienze ricorda? «Ho lavorato per una coppia di coniugi anziani, benestanti, lui malato di Alzheimer, lei una donna molto curata e tanto rigorosa. Dovevo prendermi cura di lui, che aveva una infermiera che lo seguiva nelle ore notturne; a me toccava mattina e pomeriggio, mentre ero impegnata nella a fare la spesa, cucinare, pulire e lavare casa; tutto doveva stare al posto suo, come era prima che lucidassi. La signora, educata, era molto pignola, mi seguiva passo per passo, nell’elenco degli acquisti, alla cucina, fino a tappeti e abat-jour che spostavo: aveva la mania dello scotch, con cui poneva dei segni perché mi ricordassi come andavano ricollocati tappeti, tavolini e sedie una volta spolverati…».

Ci vuole pazienza. «Molta, ma dal punto di vista professionale è stato di grande insegnamento, perfino dal lato umano mi sono arricchita: quando l’uomo è scomparso il lavoro, però, non è diminuito, ma aumentato in modo esponenziale: c’era una stanza in più da accudire e ancora tanto altro lavoro, come recarmi a casa della figlia, che nel frattempo era andata a vivere da sola in un altro appartamento, ma aveva bisogno di qualsiasi tipo di assistenza: anche lei, cucina, pulire e rassettare, lavare e stirare, una bella fatica. Poi anche la signora è andata, non ce l’ha fatta, era già debole e il covid se l’è portata».

Corina, oggi. «Oggi lavoro mattina e sera per due diverse famiglie, con loro ho un buon rapporto, sembrano scongiurati i tempi in cui un’agenzia mi faceva un contratto per seguire quattro famiglie e poi all’impegno settimanale andavano ad aggiungersi altri due nuclei familiari. E’ successo anche questo, contributi poco, ma da un po’ di tempo a questa parte con un controllo maggiore del territorio, i datori di lavoro e le agenzie, hanno cominciato ad adottare coperture previdenziali, magari part-time, ma l’importante era cominciare da qualche parte».