Don Marco Gerardo, preparatore spirituale, parroco del “Carmine”
«Il Signore riceve tutti allo stesso modo. Una volta era più semplice dialogare con il territorio, il sacerdote restava in sagrestia; meglio del catechismo l’esperienza di tipo comunitario. Vocazione in crisi, manca una prospettiva progettuale. I laici: non più destinatari, bensì autori di missioni»
Don Marco Gerardo, parroco della chiesa del Carmine, a Taranto, preparatore spirituale della Confraternita del Carmine è l’ospite del giorno di “Costruiamo Insieme”. Con lui, scambi di battute su chiesa, cristianità, vocazione e rapporto con il territorio.
Cominciamo dall’approccio cristiano con la comunità cattolica.
«Una volta, ai tempi di una società socialmente e culturalmente cristiana, per le comunità attive, quelle che noi chiamiamo parrocchie, era molto più semplice dialogare con il territorio; oggi non è altrettanto semplice, in quanto viviamo in una società “scristianizzata”, che però avverte ancora il bisogno del trascendente e del divino; cosa può fare la comunità cristiana: raccogliere le istanze, non rimanere chiusa nella volontà di utilizzare linguaggio e sistema che andavano bene cinquant’anni fa, e tentare di cogliere la sfida positiva».
Quali sono, oggi, le istanze dei cattolici, dei suoi parrocchiani?
«Una volta il parroco poteva starsene in sagrestia. Oggi le istanze riguardano difficoltà contingenti la vita e bisogni materiali; accanto a questo, la domanda centrale diventa: perché accade tutto ciò che accade?».Il parroco visto come “pastore di anime”, è ancora così?
«In un certo senso ancora sì, talvolta anche nei nostri convegni ecclesiali teniamo lunghi confronti su come fare il parroco, quali sono le modalità differenti rispetto al passato; è anche giusto farlo, anche se c’è una cosa che non è cambiata e mai deve cambiare: la prossimità, la vicinanza alle persone; forse non hai le risposte giuste nel momento in cui le persone ti rivolgono domande, ma devi far sentire comunque la tua vicinanza: una volta il parroco poteva chiedere favori per conto di un parrocchiano, perché il parroco era il parroco, oggi non è più così. Ma, sia chiaro, la gente non chiede sempre la soluzione del problema, talvolta auspica anche la sola vicinanza».
Catechismo, catechesi, cosa è cambiato rispetto al passato.
«Quando sono arrivato alla chiesa del Carmine di Taranto, ho espressamente chiesto ai catechisti di non divulgare un approccio dottrinario nei confronti dei bambini, bensì fare in modo che questi potessero fare una esperienza di tipo comunitario; il fascino della fede si trasmette attraverso un’esperienza di vita e non con dei contenuti teologici; nel frattempo sono cambiati i linguaggi, una volta esistevano i libri, oggi a farla da padrone ci sono gli strumenti multimediali».
In passato c’era più vocazione al sacerdozio.
«Vero, un tempo era diverso; una ragione, immediatamente comprensibile, era il clima sociale e culturale: ovvio che dove la fede cristiana è socialmente e culturalmente condivisa, è più facile pensare alla propria vita come a una vita di dedizione al Signore e alla sua Chiesa; altro particolare: oggi la vocazione è messa in crisi dalla mancanza di una prospettiva progettuale per la vita; la stessa parola “progetto” è complicata, tempo addietro indicava un orientamento di vita a lunga scadenza; oggi se parli di progetto ai ragazzi, questi scappano via, in quanto evoca il “contratto a progetto”, cioé quanto di più breve ci sia. Quello che indicava “orientamento per tutta la vita” adesso indica un breve pezzo di strada; anche a livello terminologico: proviamo a proporre ai ragazzi un progetto di vita, la loro risposta: “vorremmo qualcosa di più duraturo”».
I poveri, gli ultimi, il sostegno e una mensa riservata ai più sfortunati. Se non ci fossero i fedeli, le confraternite, tutto sarebbe più complicato.
«Assolutamente sì, la Chiesa non è il parroco, ma la comunità di cui il parroco è guida e pastore; anche questa è una scoperta che la chiesa cattolica ha ripreso a fare con il Concilio Vaticano II, con all’interno il protagonismo dei laici nelle scelte direttive della chiesa; dallo scorso anno abbiamo cominciato una bella esperienza con le “missioni parrocchiali”: abbiamo diviso il territorio in cinque zone, così che i laici della parrocchia, presi trasversalmente – fascia d’età e gruppo ecclesiale di appartenenza – creiamo cellule missionarie formate da quattro, cinque persone: loro, secondo un programma precedentemente indicato a ciascuno stabile esistente nelle zone interessate, si recano ad incontrare le famiglie, a raccontare la loro esperienza di fede; svolto questo primo percorso, invitiamo le stesse famiglie a partecipare a una celebrazione conclusiva che si tiene in un luogo non lontano dalla chiesa di appartenenza; un esempio: lo scorso anno abbiamo fatto la zona di Lungomare, corso Due mari e celebrato messa in piazza Carbonelli; quest’anno stiamo pensando di spostarci in una zona dalle parti di via Pitagora, via Mignogna, piazza Maria Immacolata: i laici visti non come destinatari delle missioni, ma autori di missioni».
Dunque, anche la chiesa oggi fa marketing.
«Certamente».
Lei, don Marco, a chi prega quando si rivolge al Cielo?
«Le mie preghiere le ho sempre rivolte a Gesù e alla Madonna; chiedo scusa ai Santi, che prego poco e niente; la mia vita è consacrata al Signore ed è a lui che mi rivolgo costantemente…».
Don Marco, lei viene “ricevuto” prima di altri?
«No, il Signore riceve tutti allo stesso modo: almeno in questo c’è equità e giustizia».