Dalla guerra alla felicità. Il viaggio di Idrees
Mi chiamo Idrees Muhammad sono nato il 9 ottobre 1991 in Pakistan in un piccolo villaggio dilaniato dalla guerra. Un aspro conflitto tra due gruppi etnici che ha segnato la mia vita fin dall’infanzia: la situazione era così pericolosa che non ho avuto la possibilità di andare a scuola. La mia famiglia non aveva i mezzi economici necessari per farmi trasferire in città dove avrei potuto frequentare le lezioni e così non ho mai provato la sensazione di sedermi tra i banchi con altri bambini. Sono il più grande di due fratelli e di una sorella, mio padre era già anziano e mi ha consigliato, non potendo andare a scuola, di trovare un lavoro: avevamo terre da coltivare e tutta la mia famiglia voleva restare nel villaggio.
Un giorno ho lasciato il mio villaggio per raggiungere la città e la mia vita è cambiata per sempre. Alcuni esponenti di uno dei due gruppi etnici volevano arruolarmi, hanno persino minacciato la mia famiglia. Sono stato denunciato, per motivi che non conosco, dalla Questura di Daulat Nagar e mio padre, come impone la legge del mio Paese, è stato arrestato ed è rimasto agli arresti domiciliari per due anni. Per questi motivi ho deciso di lasciare il Pakistan. Sono andato a Karchi: ho pagato 4000 rupia a un trafficante che mi ha permesso di raggiungere e attraversare l’Iran. Per un mese sono stato a Teheran: nella capitale iraniana molte persone musulmane non sono sottoposte a rigidi controlli perché si tratta di una meta religiosa. Da lì ho raggiunto la Turchia dopo aver nuovamente pagato un trafficante. Mi sono fermato circa due mesi: volevo raggiungere la frontiera con la Grecia, ma mi hanno fermato proprio mentre tentavo di partire. Alle guardie, su consiglio di altri ragazzi che viaggiavano con me, ho detto di essere di Myanmar: è stata una salvezza, una bugia che mi ha permesso di partire e raggiungere la Grecia.
Lì ho lavorato a Natplio per un anno: caricavo e scaricavo merce nei mercati lavorando dalle 4 alle 8 del mattino e poi dalle 4 alle 7 del pomeriggio. Anche in Grecia c’erano molli scontri fomentati dal gruppo nazionalista «Chrysi Avgi», il partito che in Italia tutti conoscono come Alba dorata. Insieme ad altri ragazzi abbiamo così deciso di raggiungere l’Italia per fare richiesta di protezione internazionale. Quando sono arrivato ad Otranto, hanno preso le mie impronte per la prima volta emi hanno trasferito a nela «Cara» di Foggia: sono rimasto dieci mesi e dopo essere stato ascoltato dalla Commissione, mi è stata riconosciuto la protezione umanitaria. Mi sono trasferito a Milano, insieme ad un mio caro amico, e ho lavorato nel volantinaggio pubblicitario. Poco dopo è arrivata la telefonata che mi ha cambiato la vita: un amico che nel frattempo era arrivato a Taranto mi ha detto di aver trovato un lavoro per me a Taranto e così partito. Ho iniziato a lavorare in una kebabberia che mi ha permesso di conoscere molti ragazzi pakistani ospiti nei centri di accoglienza. Con uno di loro è nata una vera e propria amicizia: è stato lui, quando è terminato il lavoro nella kebabberia, ad aiutarmi a trovare un altro lavoro. Grazie a lui sono arrivato nella cooperativa «Costruiamo Insieme»: anche se non sono andato a scuola, la vita mi ha insegnato tante cose. Come le lingue. Ne conosco sei: inglese, italiano, greco, indiano, urdu e punjabi. Costruiamo Insieme mi ha offerto l’occasione di lavorare come operatore mettendo a frutto le mie conoscenze e anche l’esperienza umana che avevo vissuto. Da nove mesi lavoro felicemente come operatore: mi piace molto il mio lavoro perché ogni giorno grazie alla cooperativa posso rendermi utile e avere un’indipendenza economica. Credo di dover ringraziare tanto il mio caro amico e il presidente della cooperativa per la fiducia che hanno riposto in me dando il via a questa nuova e bella esperienza. Infine, volevo dire che sono felice anche per un altro motivo: dopo aver attraversato molti paesi, mi sono reso conto che l’Italia mi ha permesso non solo di avere i tutti i documenti di cui avevo bisogno, ma di trovare un lavoro dignitoso. Oggi insomma sono felice perché il ruolo che svolgo mi permette di aiutare tanti ragazzi che come me sono fuggiti via da guerre e povertà e dare loro fiducia: sono orgoglioso di contribuire a non farli sentire soli e a ricostruirsi un futuro come ho fatto io».