Dayo, somalo, la fuga dalla Somalia, un’operazione delicata
«Non avevo il diaframma, un’equipe medica italiana mi ha restituito il respiro. I miei genitori pensavano fosse la paura del conflitto civile a farmi stare male. Invece, non era così: fuggito dal mio Paese, arrivai in Algeria, poi in Libia. Non avevo più soldi, chiesi di ospitarmi in ospedale: ero allo stremo delle forze, mi sentivo morire…».
«Mi mancava il respiro. Proprio così, non riuscivo a respirare bene, era una cosa che mi portavo dietro fin dalla tenera età: i miei genitori dicevano che era dovuto a uno stato d’ansia peggiorato a causa della guerra civile scoppiata nel mio Paese, la Somalia: un esercito contro l’altro, governativo contro opposizione…».
Dayo, che in italiano potrebbe essere paragonato al nostro Felice, prova a raccontare la sua storia. Una paura continua, quella di un respiro profondo, mai assecondato come succede a una persona normale. Spesso chi gode di ottima salute non si ferma a riflettere sul normale che per altri è uno stato eccezionale. Ci vengono in mente ore e ore di educazione fisica a scuola, prima della pandemia. Il professore che scandisce la marcia. Studenti in fila, scarpette da ginnastica e via, prima a passo d’uomo, poi di corsa, uno stop, inspirare ed espirare. Qualcosa che Dayo, quell’inspirare ed espirare, non aveva mai assaporato. Anzi, il suo status lo metteva quotidianamente di fronte a uno spettro, una malattia terribile, di quelle da giorni contati. Una diagnosi che prima o poi gli sarebbe stata fatale. Ma tutto è bene quel che finisce bene. «Fino a un certo punto, però: in Italia ho risorto in parte i miei problemi di salute, ma metti che non trovassi lavoro, una delle condizioni essenziali per restare qui, da voi, mi ritroverei a fare i conti con il rimpatrio e con la mia Somalia ancora in conflitto. E, purtroppo, con i due eserciti in lotta fino all’ultimo sangue a darsele di santa ragione e a non fare sconti a chi si trova a passare dalle parti di un conflitto».
QUEL RESPIRO AFFANNATO
Ma andiamo per gradi. Passo indietro, malattia e respiro affannato. «Avevo undici anni quando è scoppiato il conflitto interno fra due eserciti: chi dalla parte del governo, chi contro, insomma i “ribelli”, quelli che non hanno mai condiviso la politica di chi governa considerata violenta. Adolescente, avevo paura che uno di quei colpi sparati da un esercito o dall’altro mi centrasse e, a casa, mi aspettassero inutilmente: mi accorsi che scappando avevo bisogno di riprendere fiato, proprio non ce la facevo. Ho convissuto con questa patologia, così l’hanno chiamata i medici, per anni. Per i miei genitori a provocarmi la cattiva respirazione erano ansia, paura, preoccupazione: tutto mi sarebbe passato non appena certe cose in Somalia si sarebbero aggiustate; anche io mi sarei giovato dalla fine delle ostilità…».
Inspirare ed espirare. Inspirazione, quando il diaframma si contrae; espirazione, quando il diaframma si rilassa. «Purtroppo da visite appena più accurate ho scoperto di essere nato senza il diaframma, avete presente il muscolo che permette ai cantanti di emettere note basse e alte anche in modo prolungato? Bene, io che non ho mai avuto ambizioni da cantante, dunque non compiere virtuosismi legati a questo benedetto diaframma, dovevo sottopormi al più presto ad un intervento chirurgico».
Purtroppo per Dayo nella sua Somalia, non ci sono cure, né ospedali. «Magari gli ospedali ci sono pure, lo stesso i medici bravi, ma in quegli anni nessuno specialista avrebbe potuto dare retta a un ragazzino con la mia patologia: le corsie erano piene di morti e feriti: i primi portati via in barella e seppelliti non lontano; gli altri, i feriti, adagiati anche due per volta sullo stesso letto».
CHIEDO ASILO (E LAVORO)
Un atto di coraggio. «Avevo fatto qualsiasi lavoro pur di mettermi da parte un po’ di soldi e pagarmi un viaggio per fuggire prima in Algeria, poi in Libia e lì imbarcarmi per l’Italia e vedere se da voi sarebbe stato possibile curarsi e, con questo, trascorrere una vita decorosa, senza sussulti, senza paura e, soprattutto, senza avere nelle orecchie colpi di fucile o di pistola…».
Finalmente l’Italia, dopo uno di quei “viaggi della speranza”. «Nel trasferimento dalla Libia all’Italia, mi sono ritrovato senza più soldi in tasca: avevo paura e fame; una faceva passare l’altra, ma alla fine mi feci coraggio, mi rivolsi ad un ospedale dove si presero cura di me. Non eravamo in pandemia, mi fossi trovato in questa emergenza per me, come per chiunque altro, sarebbe stato un problema: mi presero in cura; qualche specialista, con l’aiuto di un interprete, mi chiese come avessi fatto a sopravvivere in quelle condizioni: per il personale medico diventai un paziente da curare e allo stesso tempo un caso da studiare».
Poi il miracolo. «Hanno compiuto un intervento delicato, ma alla fine mi hanno restituito il respiro. Ora ho un’altra necessità: trovare un lavoro che mi salvi una seconda volta; non avessi la fortuna di trovarlo, mi toccherebbe tornare indietro, nel mio Paese e cominciare tutto daccapo: una cosa è certa, le condizioni che ancora insistono nel mio Paese, mi toglierebbero di nuovo il respiro».