Costruiamo Insieme, da oggi “menù” per tutti
Cipolla e peperoncini a go-go. E’ la tavola la vera ricetta dell’integrazione. Cucina professionale e uno staff dedicato ai diversi ospiti. Il cibo, dicono nella sede di via Cavallotti, nutre anche l’anima, fa rivivere, anche solo per il tempo di un pasto, atmosfera e sapori di casa.
Anche, se non soprattutto, la cucina, il cibo, rappresentano occasione di scambio culturale. Stando a un attento studio sull’alimentazione, quattro stranieri su dieci dicono di aver cucinato per amici o conoscenti italiani piatti del proprio Paese d’origine e nel giro di qualche “seduta” si sono trovati ad insegnare le proprie ricette ai loro ospiti. Sempre gli stranieri. La metà del campione esaminato su vasta scala, inoltre, ha partecipato a pranzi o cene a base di cucina multietnica.
Secondo una ricerca, e per stessa ammissione degli stessi ragazzi ospiti nei Centri di accoglienza, piatti della propria tradizione rappresentano una parte importante dell’alimentazione. Soprattutto, confermano, perché nutrono l’anima, facendo rivivere, anche solo per il tempo di un pasto, atmosfera e sapori di casa.
Dunque, cipolla e peperoncini “a go-go”. O, se preferite, “come se piovesse”. Più semplicemente, “finalmente, condite le vostre pietanze come preferite!”. Partendo dallo studio appena considerato, Costruiamo Insieme corona un altro sogno: la cucina multietnica. Da oggi, la cooperativa con sede in via Cavallotti, confeziona per i suoi ospiti menù a misura di tradizione gastronomica.
E’ UN GRAN GIORNO…
E’ un bel giorno, lo festeggiano insieme gli operatori e gli stessi ragazzi che di questo altro step verso un’accoglienza, a ragione, ne fanno un vanto. E’ la vittoria del lavoro e della sensibilità. Di più, del lavoro, della sensibilità e del rispetto. Perché la cucina di via Cavallotti, nel rispetto di qualsiasi norma, non è solo «primo, secondo e companatico», ma rispetto delle tradizioni e della cultura di ciascun ospite della struttura. Da oggi, nigeriani, senegalesi, maliani, guineani, hanno il loro menù. Carico, diciamo noi, di cipolla o peperoncino, in una sola parola “speziato”. Poco importa, così piace a loro, così sia.
Pensiamoci un attimo. Non è conquista da poco in un clima non sempre idilliaco o poco chiaro fra accoglienza e respingimenti. E’, invece, un investimento controcorrente. Momento critico, futuro incerto: invece di segnare il passo e provare a comprendere che aria tira, viene fatto un investimento importante. Non solo strumenti di cottura moderni che farebbero invidia a più di qualche ristorante, ma anche risorse umane: fra spezie e fornelli, ci sono ragazzi con il bernoccolo della cucina. Avevano maturato esperienza nel Paese di provenienza o, più recentemente, frequentato corsi di formazione per aspiranti cuochi. Adesso hanno mestiere e lavoro. Da questo momento potranno crescere professionalmente e pensare al loro futuro con quel briciolo di serenità che gli mancava dal momento in cui avevano deciso di andare altrove a cercare fortuna.
Sappiamo quanto siano difficili gli italiani con la cucina quando compiono viaggi di lavoro o puro divertimento all’estero. A volte tornano. Magri, smunti, con qualche chilo in meno. Il che non guasterebbe, se di mezzo non ci fosse una dieta forzata “…perché come si mangia in Italia, non si mangia da nessuna parte!”.
QUANDO SIAMO ALL’ESTERO, QUANTO CI MANCA LA NOSTRA CUCINA?
In parte è vero, ma se solo per qualche istante, non scappassimo e restassimo con le gambe sotto un tavolo, a sforzarci di comprendere cosa sia la cucina, per gli italiani quanto per gli stranieri, gli extracomunitari in questo caso, avremmo già compiuto metà del nostro lavoro. Intanto, risvolto psicologico: da decenni gli italiani non emigrano più necessità, dunque se ci muoviamo lo facciamo per rapporti lavorativi o per vacanza. Dunque, mettiamo in preventivo che per una, due settimane, dovremo rinunciare a pasta asciutta e pizza margherita, «…come solo da noi le sanno fare!». Spesso non siamo soddisfatti ugualmente, cominciano a mancarci, in ordine sparso, tovaglia a fiori, tovaglioli in sintonia, posate, profumo che si sprigiona dai fornelli. In una considerazione: «Sì, all’estero si sta bene, luoghi di incanto, ma quanto ci manca il nostro ragù!».
Siamo all’estero. Ribaltiamo per qualche istante, non di più, il concetto. Poi ognuno è padrone di rimettere le sedie sotto al tavolo, dare un’occhiata poco invitante al conto rispetto al menù appena consumato, e andare via. Ma prima di avere nostalgia della vostra cucina o del ristorante sotto casa, pensate un istante: ragazzi che fino a pochi giorni, settimane prima, l’unico suono familiare che avevano nelle orecchie non era l’acqua che bolle o il profumo di una pietanza del loro Paese, bensì il fischio di pallottole ad altezza d’uomo e «Si salvi chi può!».
A TAVOLA, RIVIVONO ATMOSFERA E SAPORI DI CASA
L’ultimo straziante abbraccio con i familiari, per chi ne ha ancora, la fuga disperata, il gommone, il barcone, il mare aperto. Una distesa immensa, il pericolo che l’imbarcazione di fortuna a cui ci si è aggrappati possa andare a fondo e, più di una volta, vedere le speranze di chi non ce l’ha fatta galleggiare a vista.
Ecco perché in un mare di indifferenza la cucina multietnica suona come una vittoria. E’ un altro passo avanti scritto a caratteri di scatola. Riconciliare gente in fuga con la propria tradizione, la propria cultura, cominciando dall’alimentazione. Non chiedendo loro uno sforzo nel cambiare abitudini perché così è più comodo per chi si inventa l’accoglienza, bensì andando incontro agli extracomunitari cominciando dalle spezie, dalla cipolla e dal peperoncino. Per un motivo molto semplice: perché a loro piace così. E perché, si diceva, il cibo nutre l’anima, e fa rivivere atmosfera e sapori di casa anche solo per il tempo di un pasto.