Francesco Guccini, il giorno della memoria, papà Ferruccio

Il cantautore ha ricordato il padre scomparso e una sofferenza da non dimenticare. «Ha visto cose disumane. La sua era un’altra generazione. A mia madre del “voi”. Provavo a scorgere in lui ogni traccia di sofferenza, ma lui era bravissimo a dissimulare, a non trasformare quella tragedia in retorica»

 

Il giorno della memoria. Bene fanno, a milioni, a indicare un giorno all’anno da dedicare dedicato alla shoah, termine con il quale gli ebrei ricordano i sei milioni di vittime dello sterminio nazista. Anche in Italia abbiamo la stessa buona abitudine, anche se sarebbe il caso di ricordarlo ogni giorno. Come ha ricordato papa Francesco, invitando la gente a riflettere, a tenere sotto controllo la malvagità dell’essere umane, perché una simile sciagura non si ripeta.

Ogni anno è caccia al ricordo mai sufficientemente esaustivo per far comprendere al genere umano la ferocia dell’olocausto. A volte i soggetti sono gli stessi, giusto celebrarli, ma giusto anche andare a raccogliere altre testimonianze. Una di queste, e bene ha fatto in questi giorni il solito Corriere della sera, sempre attento alle storie poco spremute, per ricordarci episodi, vicende, persone e personaggi che hanno vissuto quella tragedia in prima persona.

Stavolta è toccato a Francesco Guccini, grande cantautore, grande persona. Un artista che il sottoscritto e il collega Paolo D’Andria, che cura gli aspetti mediatici del sito, abbiamo sempre apprezzato. Le sue canzoni sono state sempre sostanza, non amava i ghirigori, né gli orpelli, le grandi orchestrazioni, bensì l’essenza delle sue canzoni: i testi.

Bene, Guccini, modenese, ottant’anni compiuti lo scorso giugno, una trentina di album al suo attivo, schivo lo è sempre stato. Ma stavolta, con la brava Roberta Scorranese, ha fatto uno strappo alla regola. Lui, sempre discreto, ha parlato di Ferruccio, il papà, che di storie da raccontare ne avrebbe avute. Scomparso trent’anni fa, del genitore conserva gelosamente aneddoti, episodi che ripercorrono un periodo difficile della storia, fra nazismo e fascismo.

 

«NON ADERI’ ALLA REPUBBLICA SOCIALE…»

«Credo che mio padre Ferruccio – racconta Guccini, che fra le altre ha scritto “Auschwitz”, “Dio è morto”, “L’avvelenata”, “La locomotiva” e “Von Loon”, dedicata al papà –  abbia visto cose talmente disumane da non poter essere raccontate; cercavo di scorgere in lui ogni traccia di sofferenza, ma lui era bravissimo a dissimulare, a non trasformare quella tragedia in retorica: quella di Ferruccio era un’altra generazione. Per esempio, per tutta la vita si è rivolto a sua madre dandole del “voi”».

Così Guccini nell’intervista rilasciata a Roberta Scorranese del Corriere della sera ricorda il papà, soldato catturato a Corinto dopo l’8 settembre 1943 e deportato perché si schierò contro il nazifascismo. L’uomo, scomparso oltre 30 anni fa, ha ricevuto una medaglia d’onore per non aver aderito alla Repubblica Sociale, assieme ad altri undici cittadini italiani deportati.

«I riconoscimenti ufficiali gli facevano piacere, certo – spiega il grande cantautore – ma non se ne vantava, tanto che quando lo hanno fatto Cavaliere della Repubblica, mia madre gongolava mentre lui si schermiva; quando poi è morto, mamma ha fatto incidere il titolo di Cavaliere sulla sua lapide, mi sono messo le mani nei capelli e le ho detto: “Mamma, ma guarda che ora lui si rivolta nella tomba”».

Della sua prigionia, Ferruccio non parlava. Le tracce del suo passato da soldato, dice Guccini, si sono perdute nei tanti traslochi della famiglia. «Come un piccolo quaderno della prigionia. In queste pagine, con una grafia minuta e precisa, nel campo aveva annotato delle ricette. E sa perché? Perché non voleva perdere il ricordo dei sapori, dei profumi buoni. So che con altri lui scambiava ricordi di cibo. Uno diceva: ‘Sai, una volta ho mangiato quei tortellini…’, e tutti gli altri lo incoraggiavano con “Dai, racconta, che sapore avevano?”»

 

«…COSI’ FU DEPORTATO»

Quando a Guccini la giornalista chiede cosa direbbe oggi Ferruccio, Francesco risponde secco: «Direbbe “grazie, ne sono felice, ma nei campi di prigionia non c’ero solo io, eravamo in tanti lì dentro”, assieme a lui, nel campo di lavoro in Germania, ce n’erano tremila e più». Con lui, nel campo, c’erano anche l’attore Gianrico Tedeschi e lo scrittore-sceneggiatore Giovannino Guareschi. «Sì, anche se non si sono mai incontrati con papà – racconta Guccini – che con altri lui scambiava ricordi di cibo; uno diceva: “Sai, una volta ho mangiato quei tortellini…”, e tutti gli altri lo incoraggiavano con “Dai, racconta, che sapore avevano?”».

“Van Loon”, la canzone dedicata al papà. «Hendrik Willem van Loon è stato una specie di Piero Angela olandese degli anni Trenta. Un divulgatore, uno di quelli che piacevano a papà. Perché mio padre era nato a Pavana, provincia pistoiese, figlio di un uomo durissimo che voleva metterlo a lavorare al mulino fin da ragazzo, mentre papà voleva studiare, era un giovane curioso. E per fortuna sua madre riuscì a iscriverlo almeno a una scuola professionale, indirizzo perito elettromeccanico».

Ma a Ferruccio non bastò. «Lui amava la letteratura, l’arte, le materie umanistiche. Si era comprato un’enciclopedia di grossi volumi, leggeva i compendi storici del Barbagallo. Si sforzava di parlare in italiano, aveva delle velleità che io oggi comprendo e ammiro. E persino quando partì per la guerra meritava un grado superiore che però non richiese mai: era fatto così, papà».