Trentasette anni, dalla pandemia in poi fa il rider

«Mi tocca la partita Iva, non posso concedermi il lusso di una febbre. Se non produco niente soldi. Posso sfamarmi d’aria, ma ai miei figli non deve mancare nulla. Colpa dell’algoritmo e di una concorrenza spregiudicata»

pexels-photo-7706574Trentasette anni, due figli e una voglia di spendersi, lavorare, spezzarsi la schiena – come lascia intendere lui stesso in una lunga intervista rilasciata al Gazzettino – pur di non far mancare nulla alla sua famiglia. Sardo, da anni gira il Friuli, si sposta a seconda delle sedi che gli assegnano per svolgere uno dei lavori più faticosi che questo inizio di Millennio potesse destinare a un essere umano: quello del rider. Vale a dire il ciclista che consegna a domicilio qualsiasi tipo di vivanda ordinata per telefono. Il cliente chiama, gli risponde un centralino e non sa, il più delle volte, da dove gli arriverà la consegna. Talvolta si tratta di chilometri, ma di questo l’ordinante è ignaro. Questo è il lavoro del rider: consegnare in tempi brevi, ovunque sia la destinazione, l’ordinazione che il cliente ha comunicato a un centralino.

Trieste, Pordenone, Udine, Gorizia, sono le città nelle quali il trentasettenne di origine sarda ha lavorato. Non si danna, il papà che è in lui. E si capisce, quando si racconta. Parte subito con una dichiarazione da padre responsabile: «Io posso anche mangiare pasta e aria, ma i miei figli no, non se ne parla nemmeno: una cosa simile non la permetterei mai».

riderSPERANZE NEL CASSETTO…

L’ex giovanotto di belle speranze che è in lui, lo ha lasciato una volta diventato papà una, due volte. Come altri suoi colleghi italiani, fa in qualche modo concorrenza a un vero esercito di fattorini stranieri e studenti. «Ma, attenzione, rispetto a quest’ultima categoria, lodevole, perché molti ragazzi si autofinanziano gli studi – puntualizza – non faccio il rider per arrotondare: questo lavoro lo faccio per sopravvivere. Senza lo stipendio di mia moglie riuscirei neppure a sbarcare il lunario».

Maledetta pandemia. E’ da lì che nasce tutto. Le attività, principalmente i ristoranti, chiudono. Il personale, in larga parte, deve reinventarsi. «Cercavo lavoro, non potevo stare a pensare troppo, serviva una decisione veloce: così ho preso la bicicletta e ho cominciato a portare il cibo a domicilio».

«La mia nuova attività, senza un vero contratto – perché lavoro con partita Iva – comincia da Trieste: di brand impegnati nel servizio a domicilio ne ho conosciuti tanti». Entra – scrive il Gazzettino – in una delle categorie più svantaggiate, quella legata solo al trillo dell’algoritmo: è questo che decide dove devi andare e in quanto tempo devi arrivare alla porta del cliente. Insomma, in buona sostanza: zero tutele, zero protezioni.

Rider, tra corse record e stipendi minimi. Chi sono i 600 fattorini del Fvg che consegnano cibo a domicilio. Centosessanta euro a settimana, confessa il rider. «Ecco perché senza mia moglie non ce la farei: il lavoro, a tratti, è tremendo. Sono sempre sulla strada, non ci sono soste: pioggia, bora, freddo non ti danno tregua. E’ la forza di volontà ad aiutarmi, diversamente getterei la spugna: ma devo farlo per i miei due figli. I clienti? Ci chiedono di essere sempre più veloci, di correre di più».

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Incidenti sul lavoro, anche quelli. Ne segnala uno in particolare. «Dicembre, pioggia incessante, il mio impermeabile non reggeva: per farla breve, sono finito contro una macchina, tanto che al proprietario ho dovuto anche pagare i graffi che avevo provocato al suo mezzo. Per non parlare dei danni a bicicletta e impermeabile».

C’è qualcosa che contraria più di altro il trentasettenne rider. «Il mio non è un lavoro autonomo – conclude – la verità è che siamo governati da un’applicazione che decide tutto: se sono stanco, devo lavorare; se ho la febbre, devo lavorare. Non ho “malattia”, né un giorno libero: se mi servisse un solo giorno di riposo o per svolgere una qualsiasi cosa personale, nessuno mi paga. Per non parlare competizione con gli altri rider: una follia, tutto per prendere l’ultima consegna».

E’ così che va. La concorrenza porta sempre più i brand ad abbassare l’asticella, non solo in termini di prodotti, ma anche di tempi di consegna. Il guadagno sulla qualità è passato in cavalleria, oggi a scandire l’attività di un’attività è la quantità. Il tempo è più che denaro. E poi, contro l’algoritmo, non puoi farci niente. E pensare che questo sistema doveva esserci d’aiuto per ottimizzare qualsiasi attività: evidentemente è l’indole dell’uomo, usare qualsiasi beneficio solo per un tornaconto personale.