Spinto con forza su un gommone e legato

Bengalese, venti anni, Murad fu convinto con un atto di forza a salire a bordo di una imbarcazione di fortuna. In realtà tre amici gli avevano riservato una grossa sorpresa. «Non sapevo nuotare, non avevo mai visto il mare: appena vidi il porto di Taranto, piansi di commozione»

«Legato e lanciato come un sacco di patate su una imbarcazione». Sorride, oggi, Murad, venti anni, bengalese. Un episodio solo in apparenza violento, lui, oggetto del lancio su quel gommone, non finirà mai di ringraziare chi lo ha convinto non proprio con le buone, quel giorno a salire a bordo. «Ora o mai più mi sono detto – spiega nel dettaglio il giovane arrivato in Italia e quasi subito impegnato in un primo lavoro part-time in un supermercato – e così non ho neppure provato un po’ a scendere da bordo».

Cominciamo dalla fine, Murad. «Lavoravo a Tripoli, in Libia, in una stazione di servizio: mi occupavo di fare il pieno di benzina e lavare parabrezza alle auto, e se a qualcuno andava a genio, anche la pulizia completa del mezzo; non ricevevo uno stipendio, ma solo pranzo e cena, “leggeri” a dire il vero: insomma, non c’era da stare allegri, ma a me tutto sommato stava bene così, ero appena arrivato in Libia dal mio Bangladesh e non era il caso di fare capricci, anzi non ci pensavo proprio!».

La rimozione «di peso» dal posto di lavoro. «Quando mi capitava – prosegue Murad – parlavo dei miei sogni con il titolare della stazione di servizio: lui mi ascoltava e non diceva nulla, quando un bel giorno – anche quella volta senza pronunciare una sola parola – arrivò in auto alla stazione di servizio con due suoi amici; insieme mi invitarono con tono bonario a salire a bordo e non fare storie: mi rasserenai, non sapevo quali fossero le loro intenzioni, di sicuro doveva essere una sorpresa; in quei momenti ti balenano mille pensieri: pensi, finalmente, a una cena completa; a incontrare un connazionale, un parente; cose così. Furono bravi a mantenere il segreto fino a quando non arrivammo al porto di Tripoli…».

«MAI VISTO IL MARE!»

C’è un particolare. «Chiamiamolo particolare – raccontò Murad – non avevo mai visto il mare e non sapevo nuotare: può bastare? Non era il caso di fare capricci, i tre erano risoluti, mi legarono quasi, perché la smettessi con quel piagnistei, e mi spinsero a bordo del gommone: bene, non finirò mai di ringraziarli, quel giorno è stato uno dei più importanti della mia vita, perché al mio vissuto ho impresso una svolta; stavo viaggiando verso l’Italia, il mare faceva impressione, ma dal momento in cui lasciai il mio Paese a oggi, quello di venire in Italia, era stato uno dei miei primi obiettivi».

E adesso, passo indietro. «Ero nel mio villaggio, mio padre sofferente, non più adatto a compiere lavori di fatica; mia madre senza lavoro, ad assistere i suoi tre figli, io il più grande; gli altri due, all’epoca, avevano dieci e sei anni: fossi andato via sarei stato intanto una bocca in meno da sfamare e lì, in Bangladesh, la vita è un dramma; mio padre, mia madre e un mio zio, avevano già pensato a come aiutarmi: messi insieme i soldi per un biglietto aereo per Tripoli, mi imbarcai per la Libia».

«CHE GRANDE SORPRESA!»

La fortuna a cui alludeva Murad. «Arrivato sul suolo libico non andai a finire nelle grinfie di milizie civili o gruppi più o meno paramilitari che ti catturano, ti picchiano e ti spogliano dei soldi: io denaro non avrei avuto comunque, ma mi andò bene, chiesi a una stazione di servizio se avessero voluto una mano in cambio del minimo indispensabile: un angolo dove dormire e da mangiare; mi andò bene, fino al giorno della sorpresa, quando titolare e i suoi due amici vennero a trovarmi nella stazione di servizio, avevo appena finito il mio turno di lavoro: “Murad, devi venire con noi!”, mi dissero, chiesi il perché e mi rassicurarono subito, “Tranquillo, non ti picchiamo, anzi vuoi scommettere che alla fine ci ringrazierai?”; mi avevano pagato il viaggio su quel gommone, mi sentivo come Ulisse incatenato all’albero di una nave, anche se quella sulla quale ero salito era una modesta “bagnarola”: non dovevo resistere al richiamo delle sirene, come accade al protagonista dell’Odissea, ma avevo una paura matta di quella grande distesa di acqua davanti ai miei occhi».

L’arrivo in Italia. «Sentii sulla testa il rumore di un elicottero della Marina italiana: ci fecero capire di stare tranquilli, perché di lì a poco, una nave, militare e italiana anche questa, ci avrebbe presi a bordo per accompagnarci in Italia: non nascondo che alla visione del porto mi scapparono lacrime di gioia, pensavo ai miei genitori, i miei fratelli e quei tre amici che mi avevano riservato quella grande sorpresa!».

Lo sbarco direttamente a Taranto. «E subito al Centro di accoglienza  “Costruiamo Insieme”: gran bella sensazione; volevo imparare al più presto l’italiano; non ci misi tanto, anzi ci misi davvero poco, tanto che cominciai a girare per la città in cerca di lavoro: documenti a posto e contratto part-time con un supermercato cittadino; cominciavo a sognare: se avessi messo diecimila euro insieme, li avrei spediti ai miei genitori perché comprassero finalmente una casa tutta per loro».