Ali, diciannove anni, sudanese

«Vengo da un Paese povero e ricco, dove c’è gente che si arricchisce e altra muore di fame. Sono nato fra le bombe e vissuto fra le scorribande di ribelli invasori. Non sai se un agente di polizia ti è amico oppure ostile». Da qui la diffidenza di aprirsi a chi gli chiede di raccontarsi. Una storia dolorosa, simile a tante altre. 

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«Cosa vuoi che ti dica? Abbiamo paura, diffidiamo di chiunque, tanto di chi ti accoglie con il sorriso, quanto di chi lo fa con una stretta di mano: ne abbiamo viste talmente tante in Darfur che non ci meravigliamo più di niente». Questo il senso del primo messaggio di “Ali”, diciannove anni, musulmano, diffidente. Arriva da una regione del Sudan, si presenta così. E’ appena arrivato in Italia, non più di due settimane fa. Anche di noi non si fida, lo scopriamo dopo qualche minuto. «Amico – più o meno la traduzione – non so chi sia, non prenderla come un’offesa, faccio fatica a darti le mie generalità!». Anche interpretare il pensiero di “Ali”, del quale rispettiamo la volontà di restare più o meno anonimo, appare complicato. Nonostante una dichiarata diffidenza, si presta al servizio fotografico.

Le parole del giovane diciannovenne fanno un bel giro, ma la sostanza si comprende dal tono della voce e da come accompagna le sue espressioni. Frasi dette a metà, spesso punteggiate da un sorriso, all’apparenza sincero. Ci fidiamo delle sue parole, del suo racconto, del suo sguardo. Non avremmo motivo di pensarla diversamente. Lo diciamo per quanti non conoscono fino in fondo il nostro lavoro, chi pensa che mediare con ragazzi che fuggono da zone di guerra, da conflitti etnici, sia una passeggiata di salute, si sbaglia di grosso.

Ci vuole pazienza. Assecondare, spiegare al ragazzo che il suo racconto, come quello del connazionale, “Ibrahim” (anche lui adotta un nickname, dunque un nome fittizio) per noi è prezioso. Potremmo passare avanti, sentire un altro dei ragazzi ospiti del Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”. Ci intestardiamo, invece. Vogliamo capire il suo di mondo. Avvicinarci dove non sempre è facile esplorare un sentimento. Dunque, la traduzione, si diceva. Sembra il gioco dei quattro cantoni. Seduti intorno a un tavolo nella sede di via Cavallotti. “Ali” alla mia destra, con quel faccione da pugile che sa incassare il colpo con sorriso.

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FRANCESE, ARABO, ITALIANO, BEL “GIRO”

Di fronte, Allahssane, senegalese, dunque dimestichezza con il francese, traduce a Soulemane, guineano, che conosce uno dei dialetti arabi più vicini all’ospite sudanese. Percorso inverso una volta che “Ali” ha licenziato uno dei suoi pensieri con l’aiuto dei gesti. Sembriamo atleti che fanno stretching, si passano palla prima di entrare in gioco. Ma il sentiero, per quanto contorto, ci porta a conoscere qualche dettaglio in più rispetto alle informazioni e le storie che circolano su internet. «Da quasi venti anni – spiega “Ali” – a casa mia si sentono solo cannonate e colpi di arma da fuoco, è l’artiglieria dei ribelli che vuole occupare casa nostra: io di anni ne ho appena diciannove, pensate cosa mi rimbomba nella testa, ogni notte, quando appoggio la testa sul cuscino; mi addormento, ma dormo poco, non mi assale mai un sonno convinto: anche il rumore di uno spillo caduto a terra, mi sveglia di soprassalto».

Si blocca un attimo, “Ali”. Un po’ attende che Soulemane traduca ad Allahssane, che a sua volta “passi” a me. Un po’ è guardingo, come a pensare se lo stiamo seguendo nel ragionamento. Quasi si fosse pentito di essere stato così diffidente a prescindere. Ma è solo una nostra sensazione. Chiederglielo significherebbe compiere un altro lungo giro di parole e, francamente, stavolta badiamo alla sostanza.

«Ho vissuto in uno dei quattro Darfur (Occidentale, Settentrionale, Meridionale, Centrale, ndr) – spiega – le scorribande di gente armata fino ai denti non si contavano più, tutto era all’ordine del giorno; gli affetti più cari, a causa di conflitti sanguinosi, si perdevano a vista d’occhio: conoscenti, amici, parenti, un brutto giorno non c’erano più, come dissolti nel nulla; inutile tentare la denuncia, non sapevi se l’agente di polizia a cui ti stavi rivolgendo era tuo amico: non sappiamo quanto il governo combattesse o condividesse le sfuriate di banditi a cavallo che ogni giorno mietevano terrore e vittime».

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GIA’ GRANDE A CINQUE ANNI, IMPARI IN FRETTA

Riprende “Ali”. «Quando sei piccolo ti rifugi fra le braccia della mamma, quando cresci – e ti tocca farlo in fretta, altrimenti raggiungi gli altri che non ci sono più… – e hai già cinque, sei anni, devi cominciare a pensare a te stesso da solo; devi capire in fretta che sei nato povero e che rischi di morire di fame; solo quando hai la fortuna di mettere in fila qualche altro anno, cominci a capire che lontano dal Sudan, dal deserto del Sahara, esiste un’altra condizione: rispetto, libertà, acqua, cibo».

Prima il rispetto. Non è un caso che in elenco abbia messo prima di ogni cosa una parola simile. «Hai ragione – comprende, puntualizza – devo ancora lavorarci sopra, capire chi ti rispetta per il tuo vissuto, perché vieni da un Paese in guerra, oppure per altri motivi». Proviamo a spiegargli che il peggio è passato, che dovrebbe rasserenarsi, in Italia ha trovato amici. Gente che un rifugiato lo ospita. Non lo respinge, non gli dichiara guerra. Come provare a piegare una barra d’acciaio, corri il rischio di spezzare e compromettere quel debole segnale di amicizia che stai provando a trasmettergli.

Funziona appena l’idea di raccontare a larghi tratti la storia di una fuga da conflitti etnici. «Facciamo la fame – conclude “Ali” – mentre altrove si arricchiscono: il nostro è, insieme, il Paese più povero e allo stesso tempo uno dei più ricchi di materie prime; quelle potrebbero servire a sfamare l’intero Paese, invece non è così: chi tocca, muore!».