«Senza lavoro e senza tetto»

Andrea, ventotto anni, vive sotto i portici di piazza San Babila

A Milano conoscono lui e la sua storia sfortunata, diploma al Conservatorio e una laurea in Giurisprudenza. «Lavoravo in una piccola ditta, assunto da una multinazionale, poi il fallimento e la strada. Mangio in mensa, ma non vado in dormitorio. Genitori persi da piccolo, nessun parente, la mia unica preoccupazione, oggi, è mettere qualcosa sotto i denti, poi coprirmi e dormire, nella speranza che risvegliandomi scopra che è stato un brutto sogno»

«Nelle agenzie interinali mi dicono che ho troppe qualifiche per i mestieri che girano». Andrea, ventotto anni, un diploma al Conservatorio e una laurea in Giurisprudenza, non ha un lavoro. Di questi tempi il tema, purtroppo, da solo non farebbe notizia. Infatti, ad occupare le prime pagine dei giornali è un altro aspetto che interessa il giovanotto (che ha tanta voglia di lavorare mostrare il suo talento): è un senzatetto.

Proprio così, dorme sotto i portici di piazza San Babila, a Milano. Andrea non ha lavoro e non ha casa. «Fino a quando ho lavorato – spiega il ventottenne – abitavo in un appartamentino, non navigavo nel lusso, certo, ma ero puntuale nel pagare l’affitto; poi, la svolta verso il basso: perso l’ultimo lavoro, ho perso anche il tetto, le certezze e la dignità».

Potrebbe essere una storia come tante, si diceva. Invece è il racconto di Andrea, uno scatto fotografico, se vogliamo, di un’Italia che quotidianamente miete vittime della disoccupazione giovanile. Andrea non ha genitori, sono morti che lui era ancora piccolo. Purtroppo Andrea non ha altri parenti. Orgoglioso non si è arreso alle difficoltà della vita, ha studiato e cercato con l’impegno la sua strada. «Non ho molti amici, anzi sono proprio pochi: il poco tempo che avevo a disposizione, tra studio e lavoro, non mi ha permesso di coltivare come si deve queste amicizie, né di socializzare», spiega il giovane ventottenne.

POCA VOGLIA DI PARLARE

Non è molto loquace, Andrea. E’ comprensibile, non amerebbe raccontare il suo modo di vivere. «Confesso – spiega a chi gli pone domande che provano a scavare nel suo privato – l’orgoglio mi impedisce di chiedere aiuto finché non sarà strettamente necessario». Mantiene cura di se stesso. Impeccabile, nonostante il suo status. Pulito, barba rasata, capelli in ordine, un cappotto scuro e una borsa ventiquattrore con dentro un maglione pesante, una camicia e una maglietta.

«Laureato, ho iniziato a lavorare – racconta – in una società che produceva cartucce filtranti per altre aziende, il mio ruolo era quello di impiegato amministrativo contabile». Come tutte le storie con un finale, mesto, a sorpresa, la caduta. Un avanzamento di carriera prima di finire per strada. «Assunto da una multinazionale – sintetizza il suo salto di qualità trasformatosi in un repentino, inesorabile declino –  mi sono impegnato, sudato le classiche sette camicie  in quello che tecnicamente viene definito ciclo passivo della contabilità; risultato: dopo quattro anni l’azienda è fallita e dalla sera alla mattina mi sono trovato senza lavoro».

SENZA SOLDI, SENZA CASA

Finiti i risparmi, come racconta lo stesso Andrea, non ha potuto più onorare il contratto di affitto della casa. Ancora qualche impegno saltuario come cameriere, poi la strada e la mensa. «Vivo per strada dal maggio di sei anni fa; da non crederci, l’aspetto più inquietante dell’intera vicenda è che stando per strada riscopri gli istinti più primitivi: il primo pensiero è mangiare, poi coprirsi il meglio possibile e dormire: non in dormitorio, però, lì non mi sentirei sicuro». Nel pomeriggio Andrea si reca in biblioteca, spedisce curriculum, ma le sue capacità lo frenano: «Nelle agenzie interinali mi dicono che ho troppe qualifiche per i mestieri che girano».

Cappotto grigio scuro, borsa ventiquattr’ore, così vestito il ventottenne diplomato al Conservatorio e laureatosi in Giurisprudenza, trascorre le fredde giornate invernali. A vederlo uscire dalla mensa sembra un volontario che ha finito il turno e sta per tornare in ufficio. In ufficio, in realtà, vorrebbe tornarci, ma non ne ha più avuto la possibilità. «Dalla sera alla mattina, senza preavviso, sono stato licenziato; non so come andrà a finire, l’intera vicenda è ancora nelle mani del curatore fallimentare e non so se godrò mai di una liquidazione; unica preoccupazione, oggi: mettere qualcosa sotto i denti, coprirmi e dormire, nella speranza che al risveglio sia stato un brutto sogno». Una brutta storia dentro un’altra storia e un’altra ancora: perso il lavoro, senzatetto e con prospettive appese a un filo sottile, che il Cielo ti assista Andrea.

«Una terra promessa»

Barack Obama, memorie che fanno rumore

L’ex presidente USA, lancia stoccate a Sarkozy e Putin. «Il primo un nano, il secondo un boss di Chicago». Bene la Merkel, no Erdoğan, un opportunista. Politici italiani, non pervenuti.

Uno un duro di Chicago, l’altro un galletto di piccola statura. Giusto per citare un paio di politici messi un po’ alla berlina. Così, un Barack Obama che non t’aspetti, con una punta di malizia e una di ironia, pubblica “Una terra promessa”, libro nel quale scrive dei suoi anni trascorsi alla Casa Bianca e fa pelo e contropelo alla politica internazionale. Fa di più, traccia il profilo istantaneo dei suoi omologhi, ai tempi della sua presidenza negli Stati Uniti, come se fosse un cronista sportivo che a fine gara assegna le pagelle ai giocatori in campo, siano essi calciatori, cestisti o rugbisti. Merito degli editori (in Italia pubblica Garzanti), che evidentemente gli hanno spiegato che di questi tempi per vendere un libro occorra metterci del pepe, altrimenti esiste il serio pericolo che la pubblicazione resti fra gli scaffali. Al massimo, Obama avrà ceduto su quello che poteva essere un ulteriore tassello diplomatico, accettando di rendere la sua pubblicazione per, come dire, scoppiettante.

Ne fanno le spese, più degli altri Putin e Sarkozy, presidenti di Russia e Francia, il primo indicato come un boss della vecchia Chicago, l’altro come un galletto sì, ma di modeste proporzioni. La Merkel ne esce bene, rispettata per la sua risolutezza. Italia, non pervenuta. Secondo qualcuno meglio così, secondo il nostro modesto avviso ignorata del tutto, forse per un appeal politico che, attualmente, il nostro Paese non può vantare. Ma, non potendo entrare nella testa di Obama, prendiamo a prestito i primi stralci di  “Una terra promessa”, e valutiamoli per quello che sono: anticipazioni di memoria di un presidente degli Stati Uniti, primo nero della storia ad accomodarsi nella stanza dei bottoni della Casa Bianca e che, in questo suo libro, non manca di sferrare stilettate, piuttosto che sfottò. E bravo, Obama. In un colpo solo si sfila giacca e diplomazia, e scrive, scrive, scrive.

SARKOZY, «UN “TAPPO”»

Così, l’ex presidente USA nella sua autobiografia si lascia andare a commenti sui leader politici mondiali. Prende di mira, il francese Nicolas Sarkozy per il suo aspetto. Nel 2011, durante il G20 nel fare i complimenti al presidente francese per la nascita della figlia, Giulia, aveva sottolineato la bellezza della madre, Carla Bruni, a discapito dell’aspetto del papà. «In quell’occasione – racconta Barack Obama – ho detto a Nicolas che la figlia era stata fortunata ad aver preso la bellezza dalla madre, piuttosto che l’avvenenza del padre…». Ma nel libro appena pubblicato, Obama sembra andare giù più duro, piccone e badile insieme, tanto da sembrare volutamente più spietato.

Secondo il Corriere della Sera, Obama ha commentato così uno dei passaggi del suo libro sull’ex leader francese: «Tratti scuri, vagamente mediterranei – mezzo ungherese e per un quarto ebreo greco, cesella – e la sua bassa statura (1.66 centimetri, con rialzi nascosti nelle scarpe per sembrare più alto), Sarkozy sembrava uscito da un quadro di Toulouse-Lautrec». Non finisce qui, l’ex presidente americano sottolinea le mani del povero Nicolas messo alla berlina, sempre in movimento e con il petto gonfio come un gallo.

Per farla breve, un nano. Dal suo 1.85, Obama guarda dall’alto in basso l’ex Capo di Stato francese. E non si limita a scherzare sull’aspetto fisico di “Sarkò”. Tocca anche quello mentale, perché aveva sempre accanto a sé il suo interprete perché «parlava un inglese limitato». Stoccatina: «A differenza della cancelliera tedesca Angela Merkel…».

Non lo convinceva nemmeno il suo modo di fare politica. «A differenza di Merkel – seconda stilettata, anche questa mica da ridere – quando si trattava di governare, Sarkozy faceva una gran confusione, guidato spesso dai titoli dei giornali o dalla convenienza politica». Obama non trascura la missione in Libia, alla quale, alla fine, aveva partecipato in modo poco convinto, quasi costretto ad accettare dall’inglese David Cameron e dall’ex presidente francese, che dovevano risolvere i loro problemi politici all’interno delle Nazioni da loro governate.

«PUTIN, UN BOSS…»

Poca roba, rispetto al passaggio in cui Obama parla dell’entusiasmo infantile manifestato dall’allora presidente della Francia alla fine del G20 londinese del 2009, quando prese sotto braccio lui e il segretario del Tesoro Tim Geithner. «Questo accordo è storico, Barack! Merito tuo! No, no, davvero!», dice Sarkozy, che in seguito urla il nome del segretario al Tesoro come se fosse un tifoso allo stadio. «Non ho potuto che mettermi a ridere – ricorda Obama nelle sue memorie – non solo per l’imbarazzo evidente dello stesso Tim, ma anche per l’espressione affranta sul volto di Angela Merkel, che fissava Sarkozy come una madre guarda un bambino troppo vivace».

E così il presidente francese si è preso anche del «bambino troppo vivace», mentre la Merkel in quell’occasione, considerata con ammirazione. Obama non risparmia Vladimir Putin e il turco Recep Tayyip Erdoğan. Il primo accostato a uno di quei politici di Chicago, un duro tipo da strada, «un boss locale, solo con le testate nucleari e il diritto di veto all’Onu». Il secondo, attaccato alla democrazia solo finché utile al suo potere. Nessuna allusione ai politici italiani. Secondo qualcuno meglio così, secondo noi, invece, del tutto ignorati. Evidentemente nella politica internazionali considerati pesi leggeri e per questo “non pervenuti”.

«Covid, operatori stremati»

Intervento di Cosimo Nume, presidente Ordine dei Medici di Taranto

«Turni massacranti e piena condivisione per le misure drastiche, ma inevitabili, adottate dal sindaco Rinaldo Melucci. Questa patologia si starebbe presentando con maggiore aggressività sulle vie aeree inferiori». Intanto nuovo primato di casi positivi al Coronavirus fra Taranto e provincia. Due morti, mentre il numero dei ricoverati al “Moscati” sale a 108. 

«Turni massacranti nei reparti, nei presidi di pronto soccorso e primo intervento, operatori del 118 e delle Usca (Unità speciali di Continuità assistenziale) stremati dalle incessanti richieste di intervento, e sempre con la spada di Damocle di un possibile contagio». E’ la foto d’insieme della grave emergenza Covid indicata da un suo intervento da Cosimo Nume, presidente dell’Ordine dei Medici di Taranto. Ieri sera in provincia di Taranto erano 262 i contagi (due, purtroppo, i decessi).

Alle 18, a Taranto, è anche scattato il nuovo regime di chiusura dei negozi e di attraversamento di vie e piazze cittadine del centro a Taranto. Saracinesche abbassate. Dunque, e pochi cittadini per strada. Via D’Aquino deserta e presidiata dalle Forze dell’Ordine. Mentre la Polizia Locale annuncia che da domani, lunedì, si avvarrà di un nuova piattaforma per geolocalizzare i contagiati.

Dunque, nuovo primato di nuovi casi di positività al Coronavirus fra Taranto e provincia. Due morti, mentre il numero dei ricoverati al “Moscati” salgono a 108. In un solo giorno quasi lo stesso numero complessivo della prima ondata. In tutta la Puglia sono invece oltre 1.300 nuovi positivi.

SIAMO AL COLLASSO

«Turni massacranti nei reparti, nei presidi di pronto soccorso e primo intervento, operatori del 118 e delle Usca – dichiara Nume – evidentemente stremati dalle incessanti richieste di intervento, e sempre con la spada di Damocle di un possibile contagio; medici del territorio costantemente impegnati nel monitoraggio per il contenimento a domicilio dei casi meno gravi, presidi di prevenzione sovraccaricati oltre ogni limite dal tracciamento delle innumerevoli segnalazioni».

Non c’è da stare allegri. E’ proprio questa la situazione attuale delle conseguenze dell’emergenza Covid sul territorio fotografata dal presidente dell’Ordine dei Medici di Taranto, Cosimo Nume. «Piena condivisione per le misure, drastiche – esprime in un suo intervento Nume – ma purtroppo necessarie, adottate dal sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, nell’ottica di un contenimento della recrudescenza epidemica in corso». Le restrizioni, come appena riportato, incidono soprattutto sugli orari di apertura degli esercizi commerciali e sulla fruizione di alcune aree pubbliche (con particolare riferimento a vie e piazze centrali).

VIRUS PIU’ AGGRESSIVO

«Ci risulta – prosegue il presidente dell’Ordine dei Medici – che questa patologia si stia presentando ora con le caratteristiche di una maggiore aggressività sulle vie aeree inferiori, comportando tra l’altro un monitoraggio continuo dei parametri». Nume nel suo intervento invita, inoltre, a non trascurare «l’innegabile e costante concomitanza di tutte quelle patologie, oncologiche e cardiovascolari in primis, che non hanno minimamente ridotto la propria pressione sui reparti di elezione e di area critica dislocati nel presidio ospedaliero centrale come in quelli periferici, che ci auguriamo non vengano drasticamente sacrificati nella riconversione in corso delle strutture cliniche per far fronte alla maggior richiesta di posti letto Covid».

Sarebbe anzi ragionevole, si evince in buona sostanza nell’intervento del presidente dell’Ordine dei Medici, Cosimo Nume, «una loro sistematica riorganizzazione in senso rafforzativo, anche con l’individuazione di percorsi differenziati che allontanino il rischio di contagio per i pazienti più fragili».

«Aiuterò i deboli»

E’ John Biden il nuovo presidente degli Stati Uniti

Abolirà il bando sull’immigrazione dai Paesi musulmani. Ripristinerà il programma per la protezione dei Dreamer, i migranti arrivati in America irregolarmente da bambini e darà battaglia al Covid-19. “Joe”, balbuziente da ragazzo, lavorava sette giorni su sette: vendeva auto da un concessionario, puliva caldaie, passava la domenica dietro un banchetto al mercato. Una vita a volte sfortunata, scandita da incidenti e la morte prematura di moglie e figli.

«Sarò un presidente che unisce e non un presidente che divide: torniamo ad ascoltarci, siamo tutti americani». E promette il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima e nell’Organizzazione mondiale della sanità, di abolire il bando sull’immigrazione dai Paesi musulmani e ripristinare il programma per la protezione dei Dreamer (i migranti arrivati negli Stati Uniti irregolarmente da bambini).

John Biden si presenta così. E’ lui il 46esimo presidente degli Stati Uniti. Con la vittoria in Pennsylvania, “Joe” ha superato i duecentosettanta Grandi elettori, soglia necessaria per conquistare la Casa Bianca. Oltre che in Pennsylvania, Biden ha vinto in Arizona, Wisconsin e Michigan, scuotendo e abbattendo l’orientamento di Stati in cui solo quattro anni fa aveva vinto Trump, il presidente uscente che non si dà per vinto – ma dovrà farsene una ragione – e continua a minacciare battaglie legali.

«Sarò il presidente di tutti», dunque. E’ il messaggio di riconciliazione nazionale lanciato da Biden dalla sua Wilmington. Aggiunge, inoltre: «Non esistono stati blu e stati rossi. Esistono solo gli Stati Uniti: diamoci una possibilità aiutandoci l’uno con l’altro».

Poi un pensiero, molto americano, dedicato alla moglie che a fine discorso lo raggiunge sul palco: «Sono il marito di Jill, e non sarei qui senza di lei; senza la mia famiglia; Jill sarà una fantastica First Lady».

La battaglia al Covid-19 è il primo tema che sta a cuore a Biden, che ha idee più chiare rispetto a Trump e al suo fatalismo. Non ignorare, ma combattere il pericolo della pandemia, il contagio. «Il nostro lavoro – ha dichiarato il neopresidente – inizia con il mettere sotto controllo il Covid; non risparmierò alcuno sforzo contro questa pandemia». Già domani, lunedì, nominerà gli scienziati che guideranno la task force sul coronavirus.

Sul palco prima di Biden, Kamala Harris:«Sono la prima donna vicepresidente ma non sarò l’ultima: questo è un paese delle opportunità – dice la neoeletta. Poi, rivolgendosi alle bambine: «Sognate con ambizioni; noi, la gente, abbiamo l’obbligo di costruire un futuro migliore senza mai dare per scontata la democrazia».

Ma conosciamo da vicino, per quanto possibile, Joe Biden. Indicato come “lo zio buono d’America”, uomo della classe media, segnato da terribili tragedie familiari, il vincitore delle  elezioni Usa 2020 è un veterano della politica. Alle spalle, qualcosa come quarantasette anni di politica, grande esperto di affari internazionali, ma anche qualche inspiegabile gaffe. Uno “zio buono”. Era quello che occorreva agli americani, abituati in questi ultimi quattro anni alle intemperanze esplosive della presidenza Donald Trump.

Joe Biden, ex “vice” di Barack Obama, compirà settantotto anni tra due settimane. Democratico moderato, arrivato con qualche incertezza alla presidenza, Biden vanta anche un primato: è il presidente più anziano di sempre ad entrare alla Casa Bianca. Il 20 novembre, a due mesi esatti dall’insediamento, come detto, festeggerà il settantottesimo compleanno. Otto in più, rispetto al record precedente di Donald Trump, diventato presidente a settant’anni compiuti. Quattro anni fa, Biden, devastato dalla morte per tumore al cervello del figlio Beau, rifiutò di candidarsi. Avrebbe avuto, forse, più chance di Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca.

Joseph Robinette Biden è nato in una famiglia irlandese a Scranton, la grigia città delle miniere di carbone simbolo del fiasco dell’industria tradizionale, ma da quando aveva dieci anni ha vissuto nel Delaware, lo Stato dove, negli anni del Senato, è tornato ogni sera in treno per far da padre ai figli dopo essere rimasto vedovo.

Primo presidente cattolico dopo JFK – in tasca ha il rosario di Beau – Biden è favorevole all’aborto e, in linea con papa Francesco, alla difesa del clima. «Rientrerò nell’accordo di Parigi – promette – il primo giorno alla Casa Bianca». Balbuziente, da ragazzo, soprannominato “Dash” (trattino), perché non finiva le frasi, è guarito esercitandosi allo specchio.

Suo padre, ricco e incosciente da giovane, aveva subito rovesci finanziari e il piccolo Joe aveva dovuto lavorare sette giorni su sette vendendo auto da un concessionario, pulendo caldaie, passando la domenica dietro un banchetto al mercato. Mai studente brillante ma ottimo atleta, nel 1972, a soli 29 anni e dopo aver fatto l’avvocato, si candidò al Senato. Solo lui e la famiglia pensavano che ce la potesse fare e, Joe, venne eletto. Una gioia breve: poco prima di Natale la moglie Neilia e la figlia di tredici mesi, Naomi, rimasero uccise in un incidente stradale.

I due maschi, Beau e Hunter, finirono in ospedale gravemente feriti. Più avanti anche Beau, ex procuratore del Delaware e capitano della Guardia Nazionale, morirà lasciando nel padre un vuoto incolmabile. Hunter, il minore, gli ha causato inquietudini e guai, tra dipendenze dalla droga e business spericolati in Paesi come Ucraina e Cina rimbalzati sul padre con accuse di conflitto di interesse. Biden ha anche una figlia, Ashley, dalla seconda moglie Jill Jacobs, italo-americana con nonni siciliani e professoressa in un community college, sposata nel 1977 nella Chiesa dell’Onu a New York. Possiede, inoltre, due cani: Major e Champ. La corsa appena vinta, quella giusta, è la terza di Biden alla Casa Bianca. L’ultima, nel 1987, finì male quando si scoprì che aveva «copiato» un discorso da un leader inglese.

Nel 2008 a Obama aveva portato un bagaglio di esperienza e un cuore sincero. Ne era stato ricompensato con un accesso senza precedenti nelle stanze dei bottoni: partner, oltre che amico, del più giovane presidente che, tra i molti incarichi, gli aveva affidato nel 2008 quello di affrontare il «disastro continuo» della crisi economica dal punto di vista della classe media, da lui definita «la vera spina dorsale del Paese».

E sono stati i nipoti, con i quali ha trascorso a casa la maggior parte della giornata, a informare Joe Biden che la CNN gli aveva assegnato lo stato della Pennsylvania e quindi la vittoria. La nipote più grande, Naomi, ha postato su twitter una foto scattata subito dopo la notizia della vittoria che mostra Biden sorridente abbracciato dai nipoti.

Il presidente eletto Biden una volta insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio ha in programma di firmare immediatamente una serie di decreti per rovesciare alcune delle decisioni prese dal presidente uscente Donald Trump. Lo riporta il Washington Post.

Tra le misure il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima e nell’Organizzazione mondiale della sanità. Abolirà poi il bando sull’immigrazione dai Paesi musulmani e ripristinerà il programma per la protezione dei Dreamer. E come inizio, può dirsi “un buon inizio”.

«Bella e ospitale!»

Masseria Don Cataldo, Lino Banfi e Ronn Moss

Accolta nel cuore della Valle d’Itria la troupe del film “Viaggio a sorpresa”. La produzione sedotta dal fascino del posto. «Te lo avevo detto: la Puglia non è solo bella, è anche ospitale!», l’attore pugliese alla star di “Beautiful”. Un brindisi commosso, prima dei titoli di coda. E sul set, a chi dice «Parlate sottovoce, il commendatore sta riposando…», correggono: «E’ in relax, si sta godendo aria, profumo e bellezza…».

«Ronn, te lo avevo detto, la Puglia non è solo bella: è anche ospitale!». Le riprese sono appena finite, si levano i calici all’interno dell’affascinante cornice della Masseria Don Cataldo, nel cuore della Valle d’Itria. Lino Banfi, fra i protagonisti, sussurra in un orecchio a Ron Moss, nella duplice veste di attore e regista del film “Viaggio a sorpresa”, qualcosa che gli aveva già anticipato al primo ciak. Due stelle al confronto. Banfi, icona della commedia all’italiana, al cinema e in tv, e Moss, per tutti “Ridge”, anche sul set, il Forrester protagonista di “Beautiful”, la soap opera di maggior successo della storia della tv. La location, ospitale, alla quale il commendatore Pasquale Zagaria si riferisce, circonda con sorrisi e amorevole attenzione l’intera troupe di un film girato in angoli suggestivi della Valle d’Itria.

Qui, nella Masseria San Cataldo, operatori di ripresa, addetti al trucco, attori del cast e regista stanno levando i calici, con brindisi improvvisati con malcelata commozione da “rompete le righe”. Qui, è bene, ripeterlo, dovevano girare alcune riprese. Alla fine, gli sceneggiatori, con grande mestiere, hanno cambiato idea e dato alla storia a una interpretazione in immagini appena diversa dall’idea originale. Risultato: la troupe ha trasformato la quiete di questo un posto così bello, per alcuni giorni nell’ultimo straordinario set del film.MASS 04SILENZIO, BANFI MEDITA…

Fra una ripresa e l’altra, Banfi si mette comodo. Si stende su una poltrocina. «Non fate chiasso, il commendatore sta riposando…», dice qualcuno. «Ma quale riposando? Si sta godendo l’aria e il panorama della masseria!», corregge sicuro, uno della troupe al quale, il Lino nazionale, deve avere fatto questa confidenza. «Brevi! Brevi! Brevi!», scherza il grande attore alla fine di quest’avventura. La battuta in quel “barese” da lui inventato, la fa con un sorriso accennato, quasi per compiacere quanti lo circondano con grande affetto sapendo di stare al cospetto di una star – non ce ne voglia Moss – del nostro cinema. «Quando posso spendere una parola per la bellezza della mia Puglia, della quale sono ambasciatore in tutto il mondo – dice – lo faccio molto volentieri: non è il primo film e, mi auguro, nemmeno l’ultimo girato praticamente in casa…». Quando può mettere la buona parola con le varie produzioni, Banfi lo fa. E quando fra una ripresa e l’altra qualcuno gli chiede di raccontarsi, lo fa con il solito garbo e con una innata vis comica. Specie quando gli chiedono di dove lui sia, se di Andria o di Canosa. «Papà era un po’ pigro – scherza l’attore – così decise di emigrare a modo suo: invece di partire per Milano o Torino, si trasferì da Andria a Canosa…». Chiarita la prima curiosità, la seconda: il nome d’arte, da Pasquale Zagaria, all’anagrafe, a Lino Banfi.MASS 03PERCHE’ “LINO BANFI”

«Fu il grande Totò a suggerirmi qualcosa di più breve, io che avevo scelto in un primo momento Lino Zaga: accorciare i nomi va bene – disse il Principe – ma accorciare il cognome porta male; a lui, napoletano, bisognava credergli…Banfi sbucò da un registro scolastico dal quale presi il primo cognome, breve, che “suonasse” bene con il diminuitivo di Pasquale, Lino appunto…». Fine della breve chiacchierata, Ronn, regista serio, irreprensibile, una disponibilità disarmante nonostante la statura da star, fa radunare dal suo assistente «Chi è di scenaaa!».

Siamo ai titoli di coda. Il film, «Viaggio a sorpresa» è all’ultimo ciak. Applausi ed emozione. Banfi ha seguito fino all’ultimo fotogramma le indicazioni di “Ridge”, come fosse un attore debuttante, lui che ha interpretato commedie Anni 70 e 80, diventate un vero cult, diretto più avanti anche da Salce e Loy, Steno e Risi, che hanno fatto parte dei piani alti del cinema italiano.

«Sono certo che sarà un ottimo prodotto cinematografico – parole di Ronn Moss – la gente apprezzerà i valori di questa commedia in cui mostriamo la Puglia sotto una luce davvero speciale: era questa la mia intenzione principale, raccontare la bellezza autentica di posti così incantevoli che mi hanno fatto innamorare di questa meravigliosa terra, diventata la mia seconda casa, con l’augurio che la gente possa riconoscere e ammirare tutto questo».

Stop ai pendolari!

Tornare a lavorare nei borghi porterebbe benessere e produttività

L’Italia ha una ricchezza diffusa fatta di storia e tradizioni. La brusca frenata e l’obbligo allo smart working possono essere il bicchiere mezzo pieno. Consentirebbe a una infinità di lavoratori la riconquista di questi spazi. Oggi, non domani, potrebbe presentarsi una opportunità unica

Il nostro Paese, non lo scopriamo oggi, ha una grande ricchezza, diffusa sull’intero territorio. E’ fatta di luoghi di grande fascino e storia e antiche tradizioni. Bene, l’occasione di permettere a un numero incalcolabile di lavoratori italiani tanti la riconquista di spazi in buona sostanza a dimensione umana può rappresentare qualcosa di unico.

L’Italia è, principalmente, luogo nel quale non difettano borghi, solitamente diffusi, fatti di impercettibili realtà il più delle volte ricche di storia. Non è materia contemporanea, ma sappiamo perfettamente quanto abbia inciso nel nostro tessuto sociale l’emigrazione, lasciare la propria città, un tempo come oggi, lasciare il proprio Paese. Oggi possiamo affermare che la ricerca di un lavoro sradica i nostri figlia da queste realtà, dunque anche dalle loro origini creando insieme all’occasione lavorativa, costi sociali non indifferenti, il più delle volte legati allo spopolamento di campagna, aree rurali e i piccoli borghi.

Dunque, un investimento importante nelle precondizioni che facilitano l’opzione del lavoro agile, perché no, potrebbe aiutare a invertire questa tendenza. Tanti, infatti, sono i giovani costretti a trasferirsi in città affollatissime. La prospettiva è il lavoro, d’accordo, ma ci siamo chiesti quanto possa in realtà costare, uno sradicamento sociale e psicologico per chi si trasferisce e per chi si lascia alle spalle storia tradizione. E con queste un affetto che difficilmente qualcuno potrà restituire loro.

LAVORO A DISTANZA

La possibilità di lavorare a distanza, da casa o da sistemi decentralizzati, permetterebbe di riequilibrare un rapporto patologico tra il fascino esercitato dalla città e la legittima aspirazione di una vita radicata nelle relazioni e nella storia che spesso solo i borghi e i luoghi delle nostre origini possono soddisfare. Tocca a noi cominciare a porre al centro del dibattito una “nuova questione urbana” associata ai luoghi di residenza, sia alla qualità della nostra vita individuale e relazionale.

Vale ancora la pena di assecondare un modello di città fatto di mezzi sotterranei nei quali si ammassano lavoratori per occupare successivamente grattacieli ispirati a non si sa quali forme di sviluppo urbanistico che, spesso, finiscono in un patologico desiderio architettonico non meglio identificato. Le città, si dice, sono diventate quello che sono perché hanno sfruttato i grandi vantaggi derivati dalle esternalità di rete e di agglomerazione, ma in un tempo nel quale gran parte del valore economico è valore immateriale, la prossimità fisica perde quel ruolo centrale che ha giocato nei secoli scorsi.

CREARE NUOVE OPPORTUNITA’

L’obiettivo è, dunque, liberare il lavoro dalla sua gabbia fisica e creare nuove opportunità per persone e luoghi. L’Italia, ripetiamo, ha una ricchezza diffusa fatta di luoghi bellissimi, ricchi di storia, tradizioni, relazioni e solo spezzando le catene del pendolarismo avrebbe, come dicono gli studiosi, un effetto decisivo sul miglioramento della qualità della vita di milioni di persone. E tutto ciò, senza parlare degli effetti benefici sull’ambiente attivati da una decongestione dei centri cittadini. Minori spostamenti, più tempo libero e una migliore distribuzione degli uomini sul territorio. Si tratterebbe di spingere organizzazioni pubbliche e private verso forme e strutture più moderne e sostenibili. Le stesse, sicuramente ne guadagnerebbero in impegno, coinvolgimento e produttività. Cosa principale, il punto di partenza: non domani, ma oggi stesso.

«Ricchi con la pandemia»

Norvegia, il Fondo sovrano in tre mesi ha intascato 44 miliardi di dollari

Quello del Paese scandinavo è il più grande del mondo. Viene alimentato in gran parte dai ricchi giacimenti di petrolio del Mare del Nord. Oggi il valore complessivo delle risorse economiche equivale a circa 217.000 dollari per ogni norvegese.

Non è necessario essere grandi economisti o avere un minimo di infarinatura in economia. Insomma, non è necessario essere governatore della Banca d’Italia, per capire che in uno stato di crisi, grave in questo caso, considerando che il Covid ha messo in ginocchio l’economia di molti Paesi occidentali e non solo, per comprendere come un Paese civile, edotto e, in qualche modo astuto sotto il profilo economico, come la Norvegia, invece di andare in sofferenza, in piena pandemia si arricchisce a dismisura, tanto che il Fondo sovrano del quale proveremo a scrivere a breve, in soli tre mesi ha guadagnato qualcosa come quarantaquattro miliardi. Più o meno come un disavanzo pubblico. Se fossero piovuti insieme tutti questi soldi, l’Italia, avrebbe messo a posto due conti pubblici. Sia chiaro, non avremmo risolto la crisi del Paese, ma essere investiti da cifre simili non avrebbe che potuto far bene alle casse dello Stato.

Ma torniamo al tema di partenza, da una parte chi perde, dall’altra chi si arricchisce. Detto in soldoni, è il caso di dire, se da una parte esistono Paesi che avevano in qualche modo una solida posizione (non è il caso dell’Italia, questo va detto…) e, causa il coronavirus, da mesi navigano a vista, da qualche altra parte inevitabilmente esultano. Certo, non sulle disgrazie, sui contagi, piuttosto che le morti, aspetto tornato a preoccupare intere nazioni, Italia compresa, ma sull’aspetto squisitamente economico che spinge il flusso del denaro da una parte all’altra a seconda delle crisi.

PER FARLA BREVE…

Per essere chiari. Adottiamo un principio banale, quello dei vasi comunicanti: se si abbassa il livello in uno dei due, inevitabilmente sale quello dell’altro; stessa pratica, la marea: da una parte è alta, dall’altra parte del globo sarà sicuramente bassa. Non ci perdiamo in un bicchier d’acqua, per così dire. Proviamo a consultare economisti che ne sanno più di noi, entriamo nel merito delle dinamiche che spostano vertiginosamente e a vagonate, il denaro da una parte all’altra dell’universo.

Dunque, partiamo dal Fondo sovrano. Ne sentiamo parlare, ne leggiamo distrattamente, ma non sappiamo cosa in realtà sia, evidentemente nello specifico, non solo in superficie, questo “benedetto” Fondo sovrano. Veniamo al punto: vengono denominati fondi sovrani speciali strumenti di investimento pubblico che appartengono a ciascun Paese. Questi fondi vengono utilizzati per investire in strumenti finanziari, come azioni, obbligazioni, immobili, altre attività, i surplus fiscali o nelle riserve valutarie in moneta estera.

Trasferiamoci in Scandinavia. Il fondo sovrano della Norvegia gestisce 1,16 trilioni di dollari, il più grande del mondo ed alimentato in gran parte dai proventi dei ricchi giacimenti di petrolio del Mare del Nord. Nel terzo trimestre 2020 ha guadagnato 412 miliardi di corone (44,31 miliardi di dollari) poiché il valore crescente dei titoli tecnologici statunitensi ha compensato gli effetti negativi della pandemia. Fondato nel 1996, il fondo detiene partecipazioni in circa 9.200 società a livello globale, che detengono l’1,5% di tutte le azioni quotate. Investe anche in obbligazioni e immobili.

OGNI NORVEGESE, DUECENTOMILA DOLLARI

I mercati finanziari che risentono dell’aria che tira erano ancora influenzati dall’incertezza legata al coronavirus. Indipendentemente da questo, i mercati azionari hanno avuto un buon rendimento, specie grazie alla forte performance nel settore tecnologico negli Stati Uniti (dichiarazione riportata in una nota dall’amministratore delegato del fondo Nicolai Tangen). Oggi il valore complessivo del fondo equivale a circa 217.000 dollari per ogni norvegese. Il portafoglio complessivo, infatti, ha registrato un rendimento positivo del 4,3% nel terzo trimestre, guidato dalle azioni con un rendimento del 5,7%, che a fine settembre rappresentavano il 70,7% del portafoglio.

A fare chiarezza, comunque a sciogliere dubbi, non solo a quanti sono pratici di finanza, m anche a quanti hanno poca dimestichezza con denaro e conti, è intervenuto il Financial Times. Il principale giornale economico-finanziario del Regno Unito, uno dei più antichi e autorevoli nel mondo, in questi giorni ha fatto chiarezza. «Il rendimento complessivo – ha spiegato tecnicamente il Financial Times – è stato di tre punti base, inferiore al rendimento dell’indice di riferimento del fondo. Tangen ha riferito che il Fondo venderà azioni di società che si comportano male su questioni ambientali, sociali e di governance (ESG), per aumentare i suoi rendimenti». In buona sostanza, conclude il giornale britannico, «è necessario utilizzare il rischio in modo più intelligente, disinvestendo cioè dalle partecipazioni in società non in linea con queste finalità».

Taranto, Corso di Medicina

Lunedì 12, arriva Giuseppe Conte con sette ministri

Il premier inaugura la nuova sede universitaria del capoluogo jonico. Presenti Speranza, Provenzano, Manfredi, Guerini, Patuanelli, Costa e De Micheli, e Turco, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Sopralluogo nell’area del cantiere in cui sorgerà il nuovo ospedale San Cataldo. Sottoscrizione di accordi nell’ambito del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis), sull’insediamento del gruppo Ferretti (area dell’ex Yard Belleli) e tra Marina Militare ed Autorità di sistema portuale del Mar Jonio. La sede, ex Banca d’Italia, accoglierà i primi 60 studenti iscritti

Giuseppe Conte, presidente del Consiglio dei ministri, lunedì 12 ottobre sarà a Taranto insieme a 7 ministri, per l’inaugurazione del corso di Laurea in Medicina nell’ex sede della Banca d’Italia. Fra gli altri impegni tarantini,  un sopralluogo nell’area del cantiere in cui sorgerà il nuovo ospedale San Cataldo, e la sottoscrizione in Prefettura di accordi nell’ambito del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) per Taranto.

Gli Stati generali per l’istituzione di una Università autonoma nel capoluogo jonico si erano tenuti nei giorni scorsi in Prefettura, alla presenza del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Mario Turco, del Prefetto di Taranto, Demetrio Martino, e del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Presenti, nell’occasione, anche Loreto Gesualdo, presidente della Scuola di Medicina; Cosimo Tortorella, coordinatore della stessa Scuola; Stefano Rossi, direttore della Asl di Taranto, Stefano Rossi; Rinaldo Melucci, sindaco di Taranto; Luigi Sportelli, presidente della Camera di Commercio di Taranto; Giovanni Gugliotti, presidente della Provincia; Elio Sannicandro, responsabile di Asset-Puglia. Sono intervenuti in videoconferenza, il presidente “Anvur”, Antonio Uricchio, il rettore dell’Università di Bari Stefano Bronzini, e del Politecnico di Bari, Francesco Cupertino.

L’incontro fra gli Stati generali per l’istituzione di una Università autonoma nel capoluogo jonico si sono svolti in Prefettura, alla presenza del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Mario Turco, del Prefetto di Taranto, Demetrio Martino e del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano; oltre che del presidente della Scuola di Medicina, Loreto Gesualdo, del coordinatore della stessa Scuola, Cosimo Tortorella, del direttore della Asl di Taranto, Stefano Rossi, del sindaco Rinaldo Melucci, del presidente della Camera di Commercio di Taranto, Luigi Sportelli, del presidente della Provincia Giovanni Gugliotti e del responsabile di Asset-Puglia Elio Sannicandro. In video conferenza: il presidente “Anvur”, Antonio Uricchio, il rettore dell’Università di Bari Stefano Bronzini, e del Politecnico di Bari, Francesco Cupertino.

MOMENTO STORICO

E’ un momento molto importante, a livello istituzionale come per la Città dei Due mari, non solo per la facoltà di Medicina di Taranto, una realtà insieme al corso di studio e agli studenti già sono iscritti, ma per l’idea più ampia e complessiva di una vera e propria Università di Taranto. Un salto di qualità che la Regione Puglia sta seguendo con massima attenzione e che costituisce un punto di arrivo importante per una città che, attraverso la formazione di eccellenza, può riprendere il suo ruolo di città guida del Mediterraneo e soprattutto uscire dalla monocultura dell’acciaio, che deve avere proprio nella facoltà universitaria di Taranto una concreta alternativa.

Da sottolineare il grande risultato raggiunto nella strutturazione in tempi record (meno di tre mesi dalla acquisizione dell’immobile da parte della Regione) della nuova prestigiosa sede del corso nella ex sede della Banca d’Italia. Il progetto, è stato detto nel corso dell’incontro, mira a rendere questo investimento fondamentale per questa città e il suo territorio, in vista di una sede Universitaria autonoma.

Per raggiungere questo traguardo sarà necessario investire su sostenibilità e caratterizzazione della cosiddetta “offerta”, così da non creare concorrenza tra le realtà della stessa regione che nel caso della provincia esporta 12 mila studenti (che si recano in altre sedi, evidentemente lontane).

Come è possibile raggiungere questo risultato di lungo periodo. Creando un tavolo tecnico sotto la regia del governo che ne individui il percorso. Questo l’impegno da parte del Governo, cui ha risposto la regione attraverso le parole del suo presidente che ha spiegato che insieme la Regione è pronta a fare la sua parte, così come è disponibile a qualsiasi investimento che consenta la creazione di una quarta Università in Puglia.

SESSANTA ISCRITTI

Si è parlato anche di un cronoprogramma per raggiungere questo traguardo. Ciò potrebbe essere possibile con la creazione di un percorso condiviso con tutte le università pugliesi che abbia l’obiettivo della sostenibilità. Dunque l’avvio di tavolo tecnico per la costituzione del piano scientifico e per la individuazione delle risorse necessarie per i primi tre anni.

A conclusione dell’incontro, l’intervento del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci. «Sono grato a nome di tutti i tarantini – ha dichiarato il primo cittadino – della sintonia e degli sforzi che tutte le Istituzioni stanno assicurando per la crescita della nostra università. Adesso siamo disponibili ad un tavolo tecnico per ricercare sostenibilità e vocazioni del progetto per la sede di Taranto, ma sul linguaggio e gli obiettivi ultimi non ci possono più essere equivoci e l’Amministrazione comunale intende assumere l’autonomia della nostra università come uno dei temi fondamentali per il futuro della comunità ionica. È ormai una battaglia di civiltà e dignità per Taranto».

Nella sede della ex Banca d’Italia il corso accoglierà i primi 60 studenti iscritti, la struttura è stata trasformata in un modello all’avanguardia con laboratori e tecnologie di ultima generazione in campo medico.

Una cuoca speciale…

Valentina De Palma, tarantina, stella televisiva sul NOVE

Ha vinto le selezioni, poi una puntata realizzata a Manchester e firmato un contratto londinese con il conduttore di “Gino cerca chef”. «Ho lasciato gli studi di architettura per inseguire il mio sogno incoraggiata da amici e parenti, adesso sono soddisfatta, ma un ristorantino a Taranto lo aprirei volentieri…».

Valentina De Palma, da architetto a chef, passando per Taranto, la sua cucina tradizionale, per coniugarla infine ad un gusto originale. La Città dei Due mari ci ha abituati ad esplosioni in discipline, attività sempre diverse. La canzone, per esempio (Diodato, l’ultima scoperta).

Ora è il momento della cucina, come abbiamo scritto un paio di giorni fa, in questo stesso sito, ricordando un altro successo, quello del cuoco di origine gambiana, Ibrahima, ma tarantino d’adozione e star di un altro spettacolo “a tutto gas” (e fornelli), “Cuochi d’Italia, il campionato del mondo”. E la cosa bella, specie di fronte a un tema, la cucina, è che performance di successo come queste possono portarci lontano. Taranto ne ha bisogno. Richiede il contributo di tutti e poco importa se la promozione ricade sulla nostra città per azioni spontanee. Come possono esserlo le iscrizioni a una gara televisiva di grande successo.

Lei, modesta, prova a minimizzare quando le dicono che ha il “tocco speciale”, “a special touch” come dicono in Inghilterra, e come l’hanno incoronata in una puntata del coocking show “Gino cerca chef”.

TARANTO-FIRENZE-LONDRA

Valentina, cinquant’anni appena (vedeste quanto è brillante), mamma di tre figli, parte da Taranto. Ma prima di partire per Londra, dove ha una prima, importante esperienza, un altro step. «Parto per Firenze – spiega – per iscrivermi ad Architettura e conseguire la laurea. Il lavoro, fra penne a inchiostro liquido e scalimetri, carta da schizzo e portamine, su superfici oblique e illuminate, mi affascina, ma non appena la cucina lancia il suo irresistibile profumo, ecco che tutto torna a posto nella borsa degli attrezzi».

Non è stato semplice arrivare in tv. «La selezione è partita mesi fa – spiega – eravamo cinquecento partecipanti, mestolo più mestolo meno, a quel punto la selezione drastica: avete presente Miss Italia e “…per lei, il concorso, finisce qui!”? Era più o meno così: cercavano gente che avesse grinta, faccia tosta e sapesse stare dietro i fornelli, infischiandosene delle telecamere; non so quante volte gli autori invitassero i finalisti a fare attenzione a quei pochi, ma fondamentali suggerimenti da seguire: e per finire – concludevano – non guardate mai nella telecamera, salvo che non ve lo chieda il conduttore».

CERCATA E “CONTRATTATA”

“Gino cerca chef”, condotto dal notissimo chef e imprenditore campano Gino D’Acampo, affiancato dal maître francese Fred Sirieix, è uno dei nuovi cooking show successo del NOVE, un canale che sta registrando ascolti impensabili. La vittoria conseguita nella puntata realizzata a Manchester, le ha regalato  un anno di contratto nel celebre locale di D’Acampo. Valentina De Palma si è rivelata subito pragmatica, tanto da eccellere su un menù fatto di poche cose, ma sicuramente buone. Di più, da diventare matti per profumo e sapore. «Punto di partenza – spiega il suo exploit Valentina – la tradizione, che provo a realizzare lavorandoci sopra con un sistema tutto mio, collaudato, che poi è quello che deve essere piaciuto a giuria e allo stesso Gino: tutto calibrato, in equilibrio fra gusto e bellezza, perché i colori per me, che sono un po’ architetto e un po’ chef, sono alla base del linguaggio gastronomico: il mio mantra, la cucina da economia circolare, in cui non si butta nulla!».

Valentina, di certo, non insegue il classico sogno italiano, come a dire il posto fisso. «Oltre la Manica – conferma – ho già fatto una prima esperienza quando ho scelto di fare un anno di esperienza a Londra, ai fornelli e con i due figli insieme a lei: lì ho trovato conferma ai miei sogni, quando mi dicevano che avevo un tocco speciale, “a special touch” appunto».

Nel 2008, Valentina, decide di seguire il richiamo più forte e dedicarsi esclusivamente ai fornelli dove già familiari ed amici l’avevano incoronata regina assoluta. Una idea fissa, la sua:  aprire a Taranto un ristorante tutto suo. E non è detto che dopo il contratto di un anno con Gino Acampora, non voglia tornare nella sua città per coronare il suo sogno di imprenditrice. A meno che, Gino, che da quello che si vede in tv, non ne sappia una più del diavolo – che notoriamente – fa i coperchi e non le pentole, non la ingolosisca con un altro contratto. Sarebbe la prima volta che Valentina verrebbe presa per la gola.

«Siete senza attributi!»

Del Debbio si scaglia contro i picchiatori dei due gay aggrediti a Padova

Il conduttore di “Dritto e rovescio”, soccorre i deboli. Su Retequattro il suo programma che spesso ospita Salvini e i pistolotti contro gli extracomunitari, stavolta stupisce. E si augura che qualcuno «gonfi i responsabili del pestaggio come un tamburo», anche per non sconfessare l’atteggiamento violento di certi programmi. I ragazzi malmenati, reagiscono e denunciano il branco. Il sindaco auspica si faccia luce sul caso di grave inciviltà.

«Mettetevi due protesi là sotto!». Inequivocabile quell’indicazione, «là sotto» è riferito agli attributi, in breve, al coraggio, visto che nel nostro Paese si fa distinguo fra coraggiosi, «con gli attributi», e codardi, «privi di attributi». Ecco, allora che Paolo Del Debbio, a “Dritto e rovescio”, si rivolge direttamente a chi ha picchiato a Padova due ragazzi omosessuali per essersi baciati per strada. «Mettetevi due protesi là sotto!», esclama, quando meno te lo aspetti, il conduttore rivolgendosi a favore di telecamera. «Due ragazzi che si baciano per strada – prosegue – o si pigliano per la mano, ma uno che si mette a menarli ma che c’ha nel cervello? Non ce l’ha, ma se ce l’avesse che avrebbe in quella testa?».

Il monologo è duro. Non si ferma a quella provocazione, anzi, arriva il carico da 11. Prosegue. «Perché non ve la prendete con qualcuno di più grosso, che magari vi dà una smanica di ceffoni e vi gonfia come un tamburo? Che c’avete sotto? Sopra nulla, almeno mettetevi due protesi che fanno finta di essere quelle che normalmente un uomo ha, e che quando le ha non fa cose come cose».

Retequattro si smarca dall’aggressione dei due ragazzi gay. Anzi, provoca quei bellimbusti che hanno picchiato i due ragazzi che non facevano niente di male. Gli scandali sono altri. Alla fine, fa piacere che un programma, su una tv che non smette un attimo di indicare la diversità di pelle, quella degli extracomunitari, per esempio, stavolta abbia assunto le parti di due diversi, due gay.

La storia è nota, accade a Padova. Due ragazzi, Marlon e Mattias, il primo di ventuno anni, l’altro di ventisei, vengono prima insultati e poi aggrediti per essersi dati un bacio nel centro della città veneta. I due ragazzi camminavano mano nella mano, quando ad un certo punto hanno deciso di fermarsi. Avvicinarsi e  scambiarsi un bacio. E’ lì che è scattata l’aggressione. Un branco, autoproclamatosi “giustiziere”, formato da quattro ragazzi e due ragazze si è avvicinato alla coppia e ha cominciato a picchiarla. Interviene un amico dei due, picchiato duro anche lui. Non appena compie il gesto di difesa, viene colpito con un bicchiere alla testa. Corsa in ospedale, la ferita è sanguinante, deve suturarla con dei punti. Anche i giovani hanno subito ferite, lievi per fortuna. Insieme, i tre ragazzi formalizzano la denuncia, raccontano dell’aggressione e replicano il racconto a favore di social con tanto di video.

«Abbiamo deciso di raccontare quello che è avvenuto – dicono Marlon e Mattias – perché siamo stanchi di dover far fronte a episodi omofobi; vogliamo fare in modo che queste manifestazioni di odio e discriminazione non ci siano più», proseguono nel racconto del violento episodio. «Mi viene da pensare anche al giovane Willy – aggiunge uno dei due – ucciso dalla mascolinità tossica e da questi comportamenti menefreghisti di fronte alla collettività e alla diversità: è il momento di dire basta!».

Su Retequattro, la puntata scorre veloce. Del Debbio appare sinceramente contrariato. Come non l’abbiamo mai visto, nemmeno in occasione di una delle tante aggressioni compiute da cittadini nei confronti di extracomunitari che arrivano in Italia su imbarcazioni improbabili in cerca di futuro, lontano da guerre civili, religiose e politiche.

In soccorso dei due ragazzi, uno originario di Mestre e l’altro di Padova, sono intervenuti per primi i vigili urbani che presidiano la sede del Comune e successivamente i carabinieri. Gli investigatori stanno visionando le immagini delle telecamere per identificare i componenti del gruppo.

Pronto l’intervento del sindaco del capoluogo, Sergio Giordani, che esprime solidarietà ai ragazzi. «Auspicandoci che vengano individuati al più presto i responsabili, va ribadito che Padova è una città libera e non tollera prevaricazioni; va confermato l’impegno a ogni livello per combattere ogni discriminazione e forma di violenza, anche con adeguati strumenti normativi». Con buona pace di tutti. E stavolta anche di Del Debbio, che speriamo continui a stupirci.