“Blue whale challenge”, 50 giorni per morire.

L’idea di potersi o volersi suicidare è un’esperienza emotiva assai frequente, soprattutto in certe fasi della vita segnate da importanti crisi evolutive. Tale esperienza costituisce un elemento rappresentazionale ed affettivo probabilmente connaturato ad una larga quota di esseri umani ed è connesso alla capacità di accettare l’idea dell’ineluttabilità della propria futura morte. Tale capacità costituisce un momento evolutivo importante nel corso del processo adolescenziale in quanto segnala, da un lato, l’affrancamento dalle infantili fantasie di onnipotenza e di immortalità (e quindi l’accettazione dei limiti posti dalla realtà della vita, in primo luogo quelli temporali), ma costituisce anche, dall’altro lato, l’affermazione del proprio Sé in quanto sede unica delle proprie libertà decisionali ed una genuina e attiva accettazione della vita attraverso la rappresentazione mentale della possibilità del suo contrario (Pandolfi, 2000; Senise; 1989).
Dovevano saperlo bene gli inventori di Blue Whale, il “gioco” che ti accompagna per cinquanta giorni verso la morte.

Sveglia alle 4.20 del mattino, film dell’orrore a volontà, video psichedelici, foto sui tetti dei palazzi più alti della città, balene incise su braccia e mani con dei taglierini. La Blue Whale è una missione che gli inventori del macabro gioco, detti anche curatori o tutor, danno a ragazzini tra i 9 e i 17 anni scelti sui social network. Per 50 giorni, i giovani che decidono di accettare questa sfida devono rispettare delle regole assurde senza farsi scoprire dai loro genitori.

La deprivazione del sonno, l’ascolto di musica alienante, l’esposizione a stimoli visivi macabri e spaventosi, hanno l’obiettivo di creare un umore cupo e  un senso di negatività generale (in un ragazzo che magari già presenta elementi depressivi o di disorientamento). Un clima e un umore  che, giorno dopo giorno, confondono la capacità di giudizio dei ragazzi e assorbono totalmente il loro spazio vitale. E’ proposto come un gioco, come una sfida, tematica questa molto forte per adolescenti e pre-adolescenti: superare prove sempre più complesse, li fa sentire forti, coraggiosi, potenti. Magari perché in altri ambiti si sentono vuoti, apatici, falliti. di questa forza e coraggio vi è una prova filmata, che altri vedranno. Una delle regole è proprio quella di documentare ogni passaggio attraverso la condivisione di foto e video. E, nel prepararsi a compiere un gesto così straordinariamente eclatante, vengono fatti sentire degli eroi. Gli adolescenti sono sempre pronti a misurarsi con i loro limiti senza spesso valutare le conseguenze delle loro azioni (abuso di sostanze, sfidare il pericolo, etc.). La morte, in alcuni casi è accidentale. Qui invece è ricercata. E quindi, la fama (postuma), può spiegare solo in parte una scelta così estrema” ha scritto sul caso lo psicologo Massimo Vidmar.

Perché si parla di morte? Semplice: perché l’obiettivo finale della Blue Whale è proprio la morte.

Così come le balene azzurre, per morire, decidono di suicidarsi arenandosi sulla spiaggia, così anche gli adolescenti, sobillati da veri e propri criminali presenti sui social, decidono di accettare 50 sfide, sempre più estreme, che li trasformano e li portano fino alla depressione. Se la regola generale è quella di non dire nulla ai genitori, l’ultima sfida, quella finale, è il suicidio, ovviamente facendosi riprendere in video dagli amici per poter avere una testimonianza.

In Russia i casi di suicidi tra adolescenti che avevano partecipato a questo “gioco” social hanno raggiunto picchi difficilmente immaginabili e comprensibili. Più di 150 ragazzi, in poco tempo, sono caduti in questa trappola infernale.

Il macabro gioco della balena blu si è già diffuso a macchia d’olio: dalla Russia ha raggiunto il Brasile, ma anche Francia e Inghilterra. In Italia, il caso di un ragazzino suicida a Livorno che si è lanciato nel vuoto dal 26° piano del grattacielo cittadino, fa temere che la Blue Whale sia arrivata anche qui.

I fattori di rischio ambientali nella fase adolescenziale sono determinati da bassi livelli di coesione, elevata conflittualità ed insoddisfazione all’interno della relazione genitoriadolescente.

Questi sono elementi riscontrati frequentemente nelle famiglie degli adolescenti che tentano o completano il suicidio.

La disarmonia e la disintegrazione familiare giocano un ruolo estremamente importante perché rendono l’adolescente privo di un contesto di riferimento solido e significativo che gli è ancora necessario.

Dentro un processo di progressiva perdita di valori, anche la vita perde il suo valore soprattutto se il vortice prodotto dalla distruzione dell’autostima e dalla perdita di autonomia presenta la morte come il punto di arrivo, il traguardo, il premio per aver terminato il “gioco”.

Dunque, è bene interrogarsi su come una o più menti distorte e criminali abbiano potuto immaginare di costruire una trappola per ragazzi retta sulla perversione e l’idolatria della morte e su come è possibile che tutto ciò, eludendo qualsiasi controllo, possa così facilmente raggiungerci nelle nostre case, nelle nostre famiglie, colpire i nostri figli con facilità.

Meglio sarebbe se imparassimo a costringere i nostri figli a confrontarsi col mondo reale che, per un inconscio ma radicato senso protettivo, abbiamo contribuito anche noi “adulti” a sostituire con un mondo virtuale nel quale è difficile trovare e dare un senso alle cose, è difficile abituarsi a dare un senso alle cose.

Se fossimo capaci di sostituire il giudizio con il confronto, la punizione con la discussione, forse i ragazzi parlerebbero di più con noi, condividerebbero con noi ansie e angosce proprie della loro età, anche insuccessi e delusioni, evitando di cercare un rifugio diverso e altro che spazia fra la solitudine e la materializzazione dei rapporti umani.