«Bella la Città vecchia, che storia!» Colazione nell’Isola.

 

Colazione domenicale in Città vecchia. Un incontro un po’ voluto, un po’ fortuito quello nell’Isola. Alassane, senegalese, uno degli operatori di “Costruiamo insieme”, il Centro di accoglienza straordinaria di via Cavallotti a Taranto, anticipa che domenica con un paio di amici, Anssoumane e Sinaly, connazionale il primo, ivoriano il secondo, faranno due passi in Città vecchia. Alla scoperta di una Taranto che ancora non conoscono del tutto.

«Ne abbiamo sentito parlare», dicono, «visto foto sui giornali al bar o visitando i siti tarantini che postano tante foto di una città bella e accogliente». Alassane, quando può, interviene, i suoi amici l’italiano lo afferrano. Quando non ce la fanno, provano ad interpretare con quell’intuito in alcune circostanze, anche non facili, è stato risolutivo. A proposito di bar, ne cerchiamo subito uno. L’incontro nei IMG-20171015-WA0019pressi del Castello aragonese. Un centinaio di visitatori in fila indiana. Nonostante siano poco più delle nove, i turisti hanno già completato la visita ad uno dei principali attrattori della città. Lasciano alle spalle Castello e due bus extraurbani, imboccano il Ponte girevole per fare ingresso al Borgo.

Città vecchia, un passo dalla sede univeristaria “Aldo Moro”. Bar “La piazzetta-Fishbar”, elegante, servizio impeccabile. Primo giro, cornetto, alla crema va bene. A seguire, caffè o cappuccino. «Caffè, no, in Italia è troppo forte, sembra, come dire…», Alassane fa un gesto eloquente, indica qualcosa di circolare che diventa sempre più piccolo, ristretto, «…qualcosa di troppo concentrato; tante volte ci chiediamo come voi facciate a berne non uno solo, ma anche due, tre al giorno: no, se possibile, dopo il cornetto preferiamo un cappuccino…».

Città vecchia, raro capitiate da queste parti. «Nei bar che frequentiamo per fare colazione», dicono un po’ in francese, un po’ a gesti, «spesso ci fermiamo a parlare: quello degli esercizio commerciali è il primo passo che facciamo verso i residenti, non è difficile diventare amici dei tarantini: mai avvertita quella diffidenza della quale ogni tanto ci hanno parlato: crediamo, come in ogni parte del mondo, sia sufficiente essere educati, avere rispetto del prossimo per guadagnarne tu stesso dagli altri».

Gli Stretti della Città vecchia, suggestivi. Talmente stretti che non è semplice passeggiarci mettendosi in fila, per tre, quattro. Complicato quando uno scooter con due ragazzi a bordo sfreccia su via Duomo. Non hanno il casco, i residenti sono i primi a fare gesti di prudenza ai due giovanotti più o meno spericolati. «Fate attenzione!», gli urlano, «Poi papà e mamma, quando vi fate male, piangono!». Un classico. Ammonimento esagerato, ma fa parte del ruolo pittoresco che qui interpreta, non richiesto, la gente dai cinquant’anni in su.

IMG-20171015-WA0010Giornata di sole, leggenda metropolitana da sfatare, Alassane. «Sempre nel solito bar qualcuno ci ha invitati ad essere prudenti nel venire in Città vecchia, “potreste fare incontri spiacevoli” ci dicono». «E di cosa dovremmo avere paura?», rispondono gli altri due, Anssoumane e Sinaly. «Che ci facciano una rapina, forse? abbiamo pochi soldi in tasca; che ci facciano paura, magari? Veniamo da Paesi nei quali si fa la fame e se non la digerisci, quella, la fame, corri il rischio di essere anche picchiato; abbiamo fatto un lungo viaggio a bordo di una imbarcazione che ha affrontato mare aperto e tanti pericoli, prima di arrivare sulle coste italiane, cosa dovremmo temere ancora?».

Invece, in Città vecchia, scooter a parte, si passeggia volentieri. Saranno le vie strette, radio e stereo ad alto volume, con musica e canzoni popolari accompagnate a squarciagola, via Duomo e i vicoli vicini sprigionano un’atmosfera familiare. Davanti alle due Colonne doriche, Sinaly domanda cosa siano quelle vestigia. «Appena duemilacinquecento anni di storia, qui sorgeva il tempio di Poseidone, parliamo di Magna Grecia…».IMG-20171015-WA0015 Duemilacinquecento, numero che fa paura, nel pronunciarlo come nel rifletterci sopra. Taranto, invece, ha proprio tutta quella storia. E non solo, la Città vecchia che abbiamo appena visitato, dalla cattedrale di San Cataldo («…siamo musulmani, ma l’opera è di una bellezza straordinaria…») alle Colonne, fino al Castello aragonese, ha subito invasioni e contaminazioni, fra gli altri, di arabi e spagnoli.

«Sarebbe bello visitare il Castello aragonese e il Museo archeologico», propone Alassane, «ne parlo con Kaleem, un collega, lui è pratico, sa come muoversi e a chi rivolgersi per conoscere da vicino la storia della città che ci ospita». «Un po’ per volta – conclude l’operatore-interprete – stiamo compiendo passi avanti sul territorio per superare quei primi momenti di diffidenza da parte dei residenti: voglio studiare, lavoro permettendo, laurearmi in Medicina, aiutare il prossimo, esercitare la professione in Italia o nel mio Paese, il Senegal, poi si vedrà».

Contra-dizioni. Popolo, popolazione, regole e cittadini.

Da venerdì avevo il pensiero rivolto a quale poteva essere il tema di questo domenicale senza che mi venisse in mente nulla che mi piacesse, che mi ispirasse, che mi stimolasse a scrivere. Ad un certo punto, ho avuto il terrore che la normalità o, meglio, la sensazione di normalità mi avesse assorbito senza che me ne fossi accorto.

E’ brutto perché piano, lentamente senti crescere dentro un senso di angoscia, di sconfitta con te stesso.

Possibile?” ti chiedi.

Riesci a dare una giustificazione ad un blocco intestinale, un blocco renale, anche alla diarrea, ma darti da solo una giustificazione ad un blocco cerebrale diventa difficile. Diventa necessario un processo di auto analisi, uguale a quello che fai per resettare il computer quanto si blocca.

Spegni la televisione, spegni qualsiasi canale di comunicazione a partire dal telefono e lasci che il cervello trovi il suo tempo per recuperare e riaccendere funzioni spente.

Operazione utile e pericolosa allo stesso tempo, perché se ti costringe a ragionare fuori dall’ordinario e dentro la quotidianità gli devi dedicare l’intera notte.

Non puoi sfuggire, non puoi rimandare e neanche dire “ti richiamo, ora non posso” come fai al telefono.

E’ come una donna al momento del parto o un bambino che sta per venire alla luce: non puoi dettare i tempi, decidere il momento giusto.

Ed è così che capita, nel pieno della notte, di ritrovarti a riflettere su come si possa, nell’era dell’esaltazione della globalizzazione, continuare a giocare sulla differenza fra popolo e popolazione.

Se vi è il rispetto delle regole, i due termini si annullano sciogliendosi dentro un concetto omnicomprensivo che è quello di cittadini, ovvero persone che convivono su uno stesso territorio e hanno uguali diritti e doveri.

Sembra un ragionamento logico che, però, non si traduce nella realtà. Anzi, è parecchio lontano dalla realtà!

Quando leggo o sento di rivendicazioni identitarie e di movimenti secessionisti rabbrividisco al pensiero che nessuno si interroga sul fatto che quella che ci hanno abituati a chiamare globalizzazione riguarda un pezzo di vita del quale siamo protagonisti passivi, spesso vittime inconsapevoli, di un sistema governato dai grandi gruppi finanziari, dalle lobby: se si fosse trattato di una rivoluzione culturale questo mondo sarebbe stato assai diverso abbattendo qualsiasi muro che impedisce la convivenza.

L’incapacità di leggere i profondi mutamenti sociali ed il ricorso all’ideologizzazione in assenza di argomentazioni che reggano trasformano, in Italia, la discussione sulla necessità di rivedere la normativa sul diritto di cittadinanza in una bagarre nella quale si moltiplicano i prestigiatori di parole.

Voglio proporre all’attenzione l’appello sottoscritto da docenti e intellettuali in favore dell’approvazione della proposta di Legge sullo Ius Soli, utile in un Paese che ha da recuperare tanto sul tema della convivenza e, allo stesso tempo, assurda dentro un contesto globalizzato.

Appello di docenti ed educatori per lo ius soli e lo ius culturae 

Noi insegnanti guardiamo negli occhi tutti i giorni gli oltre 800.000 bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro. Se nati qui, dovranno attendere fino a 18 anni senza nemmeno avere la certezza di diventarci, se arrivati qui da piccoli (e sono poco meno della metà) non avranno attualmente la possibilità di godere di uguali diritti nel nostro paese.

Ci troviamo così nella condizione paradossale di doverli educare alla “cittadinanza e costituzione”, seguendo le Indicazioni nazionali per il curricolo – che sono legge dello stato – sapendo bene che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto.

Questo stato di cose è intollerabile. Come si può pretendere di educare alle regole della democrazia e della convivenza studenti che sono e saranno discriminati per provenienza? Per coerenza, dovremmo esentarli dalle attività che riguardano l’educazione alla cittadinanza, che è argomento trasversale, obbligatorio, e riguarda in modo diretto o indiretto tutte le discipline e le competenze che siamo chiamati a costruire con loro.

Per queste ragioni proponiamo che noi insegnanti ed educatori martedì 3 ottobre ci si appunti sul vestito un nastrino tricolore, per indicare la nostra volontà a considerare fin d’ora tutti i bambini e ragazzi che frequentano le nostre scuole cittadini italiani a tutti gli effetti. 

Chi vorrà potrà testimoniare questo impegno anche astenendosi dal cibo in quella giornata in uno sciopero della fame simbolico e corale.

Il 3 ottobre è la data che il Parlamento italiano ha scelto di dedicare allamemoria delle vittime dell’emigrazione e noi ci adoperiamo perché in tutte le classi e le scuole dove è possibile ci si impegni a ragionare insieme alle ragazze e ragazzi del paradosso in cui ci troviamo, perché una legge ci invita “a porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva”, mentre altre leggi impediscono l’accesso ad una piena cittadinanza a tanti studenti figli di immigrati che popolano le nostre scuole.

Ci impegniamo inoltre a raccogliere il numero più alto possibile di adesioni e di organizzare, dal 3 ottobre al 3 novembre, un mese di mobilitazione per affrontare il tema nelle scuole con le più diverse iniziative, persuasi della necessità di essere testimoni attivi di una contraddizione che mina alla radice il nostro impegno professionale.

Crediamo infatti che lo ius soli e lo ius culturae, al di là di ogni credo o appartenenza politica, sia condizione necessaria per dare coerenza a una educazione che, seguendo i dettati della nostra Costituzione, riconosca parità di doveri e diritti a tutti gli esseri umani.

Al termine del mese consegneremo questa petizione ai presidenti dal Parlamento Laura Boldrini e Pietro Grasso tramite il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, perché al più presto sia approvata la legge attualmente in discussione al Parlamento.

«Voglio fare il commesso a Milano» Il sogno di Ouattara, dopo l’incubo di un amico “freddato” da banditi

La storia di Ouattara, l’accento sulla terza “a”. Conta poco, scherza lo stesso ragazzo, ventiquattro anni, ivoriano. Parla francese: «L’importante è poterla raccontare la mia di storia». E’ un film. Uno dei tanti, se un giorno ci fermassimo a chiedere ad ogni ragazzo ospite del Centro di accoglienza straordinaria di via Cavallotti. Quanti soggetti cinematografici, purtroppo non sempre a lieto fine.

Dunque, il film di Ouattara. E’ drammatico. Tiene in mente una sequenza che non dimenticherà mai. Fosse un lungometraggio sarebbe un estratto da un lungometraggio di Oliver Stone o Michael Cimino. La scena, una delle tante irruzioni in una casa, in Libia, terra di passaggio verso la libertà. Lì, il giovane ivoriano, condivide quel piccolo vano con altri ragazzi. Muratori come lui. Come lui, mettono da parte pochi risparmi, spiccioli. Finiscono in un cassetto, dentro al quale ripongono soldi e sogni.

IMG-20171012-WA0035Ma ecco la violenza. Si stacca dallo schermo, l’immaginario diventa cruda realtà. Banditi con il volto coperto, fanno irruzione in casa. Armi in pugno. «Accade quasi tutti i giorni – prova a ricostruire un dramma consumato in pochi istanti – non riusciamo a mettere da parte la paga settimanale, che puntuale arriva gente senza scrupoli, volto coperto, a rovesciarci le tasche e prenderci quelle poche risorse economiche: non opponiamo resistenza, a che vale, meglio starcene buoni; ci chiedono i nostri magri guadagni, gli spieghiamo che abbiamo subito una rapina qualche giorno prima».

Non finisce qui, purtroppo. «Ci passano in rassegna – spiega Ouattara – uno per volta: ci mostrano le loro reali intenzioni con inaudita violenza, mi portano la pistola alla tempia; urlano ai miei amici: se non diamo loro tutto il denaro fanno fuoco: facciamo quello che ci chiedono; tutti, tranne uno, Ali, un amico del Mali: non ha soldi, non gli credono, gli sparano un colpo in pieno petto, ucciso sul colpo!».

Ecco da dove fugge Ouattara. Dalla violenza quotidiana. Parte da Adijan, capitale della Costa, tredici mesi di lavoro per arrivare finalmente in Italia e scorgere il primo barlume di speranza. «Mamma ha un negozietto di abbigliamento – dice – io l’aiuto, quell’attività però non consente di sfamare una intera famiglia; a una certa età si diventa un peso». Un fardello anche la voglia di crescere, imparare, andare a scuola. «Dieci anni, sempre sui libri, in Italia dove c’è cultura a non finire, voglio imparare ancora tanto, a cominciare dalla lingua del vostro Paese per confrontarmi meglio con la gente del posto». Taranto gli piace, ma saranno i vestiti, non di gran moda, abiti da indossare tutti i giorni, che ripone a posto nel negozietto di famiglia, che il suo obiettivo è un altro. «Milano, capitale della moda – dice orgoglioso Ouattara – lì ho già degli amici: non per fare lo stilista, ma trovare un posto di commesso, in un negozio di abbigliamento sarebbe il massimo; penso a quanto sarebbe bello mandare a casa le mie foto da una delle vie del centro di Milano». Via Montenapoleone, per esempio. Capitale della moda e dei ricchi di mezza Europa. Milano se la gioca con Parigi. «Mio cognato è in Francia; mia sorella, più grande, trentuno anni, aspetta momento e denaro utili per raggiungerlo: non è facile, sarebbe però l’occasione per ricongiungerci, riabbracciarci, stare insieme qualche giorno nella massima serenità e provare a dimenticarci miserie e tragedie non solo di un Paese, ma di un intero continente».

IMG-20171012-WA0029Il viaggio di Ouattara verso la libertà. «Parto da casa con pochi spiccioli – ricorda – arrivato in Mali, i soldi finiscono; il viaggio prosegue con un signore: “Mi pagherai con il lavoro, sai fare il muratore?”, la fame mi ha spinto a imparare in fretta; una settimana di lavoro, poi resto con il mio benefattore per mettere insieme altri soldi: trovo casa, divido l’affitto con altri ragazzi in cerca della stessa libertà, subisco di media una rapina a settimana; ogni volta mi tocca ricominciare, tanto che per rastrellare i soldi necessari per il viaggio ci ho messo tredici mesi; alla fine, però, arrivo in Italia: voglio imparare la vostra lingua, sto facendo esperienza; il dialetto tarantino ha qualcosa in comune con il francese, spero di compiere passi importanti per poi partire e raggiungere i miei amici».

Non c’è ancora il lieto fine, ma Ouattaua che ha un nome al quale ci si abitua, un cognome che sembra un codice fiscale (sorride quando glielo facciamo notare), ha già scritto parole importanti di un capitolo della sua vita. Ora vuole coronare il suo sogno, farsi un selfie in un negozio nel centro di Milano. Volesse il cielo, la stessa attività nella quale ha trovato un lavoro da commesso. «Chiedo molto, lo so, ma se non fosse così non sarebbe più un sogno!»

Ore 11, lezione d’italiano

Extracomunitari fra i banchi per imparare. Non attendono l’esame di docenti o direttore didattico per l’ammissione nella scuola pubblica partendo dalle medie. Non vogliono farsi cogliere impreparati, provano a bruciare le tappe. Provano, non danno niente per scontato. Ci mettono l’impegno di ragazzi che hanno vissuto sulla propria pelle la miseria, esperienza che gli stessi non augurerebbero mai al prossimo. Provano ad imparare i fondamentali per dare il più presto possibile un senso decoroso al futuro. A cominciare dall’integrazione, tema che sta a cuore non solo a questi giovani studenti che frequentano il corso di alfabetizzazione in programma al “Cas Cavallotti” a Taranto. Provano.

IMG-20171010-WA0015Fanno, infatti, di più. Molti di loro sono già a buon punto. Questo dice una lezione alla quale assistiamo in mattinata. Arrivano alla spicciolata, ma si presentano alle 11, puntuali, alla lezione di italiano, tocca a Raffaella. Indossano tute, i giovani allievi, hanno sottobraccio computisterie, qualcuno un cappellino, altri una cuffietta. Chi ascolta musica tiene il ritmo, non riesce a starsene fermo, neppure per qualche istante. Scandisce i suoni, muove a tempo un piede. Poi, l’insegnante per un giorno, batte un paio di volte le mani, reclama attenzione: via le cuffiette, quaderni aperti, ci sono i nuovi appunti da prendere. Fra i banchi: Mamadou, Dioulde, Cysse e Mohamed, attenti ad ogni sillaba.

Balza agli occhi l’abitudine dello scrivere a stampatello. Tutto maiuscolo, tranne per “e”, “i” e “q”. Solo queste ultime sono minuscole. Perfetto l’accento sull’ausiliare “è”. Per il resto, il ragazzo invitato alla lavagna è preciso, lineare, distingue un aggettivo da un verbo, declina passato, presente e futuro. Come se fosse un mago, avesse una sfera di cristallo. Distingue i numeri cardinali da quelli ordinali. E se qualche volta scivola è solo per precipitazione. Ma c’è l’amico, il compagno nel primo banco, l’alunno più attento che fa da notaio e lo mette sulla strada giusta.

Una lezione nella lezione. Raffaella è concentrata, nemmeno per un istante intende far calare l’attenzione della IMG-20171010-WA0024ventina di allievi. Spiega e interroga con l’impegno di chi si cimenta nell’insegnamento per passione. Senza questa, la passione, tutto sarebbe vano. I ragazzi vogliono imparare, ma la lezione di vita la conoscono fin da piccoli. Si accorgerebbero subito se una persona in una qualsiasi attività ci mette il cuore. Dunque, mentre l’insegnante spiega e lo studente è alla lavagna, c’è chi a se stesso dà le risposte sottovoce. A volte anche prima dell’interrogato, in piedi accanto alla lavagna. «Uno, numero cardinale!», dice. «Primo, numero ordinario». E via discorrendo. Un breve stop, verbo da declinare. Niente paura, «Io sarò, tu sarai, egli sarà…». «Futuro!». Fossimo in tv, ci verrebbe da dire «Risposta esatta!». Ma i ragazzi, appena conosciuti, ci stupiscono per molto altro ancora. Aggettivi, pronomi, particelle pronominali sono strumenti dei quali ormai dispongono a piacimento.

Verrebbe voglia di tornare. E ci torneremo senz’altro. Ma una ripassatina alla nostra grammatica, che di bello ha sfumature ma anche percorsi complicati – per gli italiani figurarsi per gli stranieri – non farebbe male. I ragazzi intanto mandano a memoria mesi dell’anno, giorni della settimana, tabelline. Compiono passi straordinari.

Appassiona la passione. Vederli attenti e mai distratti, spiega senza parole come credano in questa seconda occasione della vita. E lo fanno da alunni studiosi che non vogliono perdere una sola virgola della lezione. Quello che impareranno tornerà fondamentale nei rapporti sociali, per ricambiare l’abbraccio della gente che li ha accolti a braccia aperte. E far ricredere, se ancora ce ne fosse bisogno, quel po’ di scettici che osserva il processo di integrazione con inutile sospetto.

Determinati come i bianconeri “Niente ci fa paura, siamo disposti ai sacrifici”

Due chiacchiere per conoscersi, comprendere quale storia li abbia spinti in Italia. Poi fari spenti, taccuino chiuso e penna sulla scrivania. Arrivano ragionamenti effimeri, cose così. Si parla di sport. Chi è appassionato di pallacanestro, sport fisico, tutto muscoli e grinta; chi, invece, e sono tanti, tiene per il calcio, anche questo uno sport per uomini duri.

IMG-20171008-WA0064La Juventus, dunque, prima di ogni cosa. E non lo manifestano con il solo sorriso. Indossano la maglietta bianconera e poco importa se lo sponsor sul petto appartiene a un’altra stagione, quelle strisce che scivolano sul petto di Camara e Coulibaly, Austin e Landing, sono una seconda pelle.

Strano a dirsi, i primi due hanno nomi o assonanze con altri calciatori. Sarebbe bello si facessero fotografare con una sciarpa, quella maglietta. Prudenza, tante volte i ragazzi pensassero di essere trattati da fenomeni da baraccone. Non è così. La diffidenza, però, è un viaggio che li accompagna da piccoli. Non sempre sanno con chi, in realtà, hanno a che fare. Ma di noi si fidano. Il calcio, poi, è un linguaggio universale, unisce popoli e passioni e poco importa se divide per novanta minuti, il tempo di una gara.

Kaleem si assume il compito per conto del “CAS Cavallotti”. Fa da interprete, convince i ragazzi in un attimo.IMG-20171008-WA0065 «Una foto con la maglia della Juventus?», dice Landing. «Per me è un onore, la giro anche ai “miei”, che ogni giorno mi chiedono come stia». Sta bene il giovanotto che si è tinto un ciuffo biondo, come Kean, il giovane fuoriclasse italiano, nato da genitori ivoriani (adesso in prestito al Verona).

Il calciatore bianconero è uno dei tanti che vuol comprendere dove stia andando la politica italiana, a proposito dello “ius soli”. Nascere in Italia, vestire la maglia azzurra di tutte le nazionali giovanili, dunque dare un contributo sportivo al Paese, è un generoso “dare”; sarebbe, però, anche il caso di “ricevere” qualcosa. Non sentirsi discriminato.

Dunque, Camara, Coulibaly, Austin e Landing. Assumono pose stile album “Panini”, la collezione di calciatori più
famosa al mondo. Furono quattro fratelli, edicolanti modenesi, che sul finire degli Anni 50 inventarono il collezionismo legato al calcio. Fatto di album e bustine, foto da incollare ora con la Coccoina, più avanti con le celline biadesive.

IMG-20171008-WA0066Uno di loro prende sul serio (il calcio talvolta lo è…) la realizzazione di una serie di “scatti” e indica, orgoglioso, il simbolo della squadra del cuore. «Non è un caso che sia cucito proprio lì», dice. «La zebra per noi è un simbolo, unisce, fa squadra, quando una di queste si smarrisce, il branco va a cercarla, a qualsiasi costo: è questo il senso…». Insomma, i ragazzi non si fermano a Dybala, ai gol del fuoriclasse. Vanno oltre, scavano nei significati e se non ce ne fossero, sanno loro come interpretarli.

Sono in molti in via Cavallotti a tifare Juventus. Non ci sono tracce di tifosi di altri club. E anche se ce ne fossero, non è il caso di manifestare simpatia calcistica, sarebbero in forte minoranza. I bianconeri sono i più bravi, difficile perdano. Poi hanno un bel gioco e un vero fuoriclasse, Dybala. «E’ più forte di Messi», insiste Camara, «dategli tempo e la bandiera di questa squadra crescerà, diventerà l’attaccante più forte al mondo». Sembra di assistere a una di quelle trasmissioni televisive a tutto tifo. Non conoscono mezze misure e per questo i loro giudizi tecnici sono sentenze. «Paulo non si discute, è un grande!».

IMG-20171008-WA0063Chiacchierata conclusa, i ragazzi ci hanno portato sul terreno nel quale si sentono veri intenditori. Ma quella
che era una curiosità e poteva sembrare una ricreazione, è finita. Si torna alle storie di tutti i giorni, alla voglia di ricostruire. Dimenticare un Paese invivibile, un viaggio della speranza con paure e tensioni. Provare a candidarsi per un posto di lavoro. «In questo ci sentiamo come la Juventus – dicono insieme – non abbiamo paura di niente, siamo disposti ai sacrifici, a farci in quattro per garantirci un futuro e una vita dignitosa».

“Amiamo il calcio, tifiamo Juventus e Dybala” Un plebiscito per bianconeri e asso argentino

Fosse un sondaggio, non ci sarebbe partita, visto l’argomento. I ragazzi extracomunitari che frequentano il Centro di accoglienza straordinaria (CAS) “Cavallotti”, non hanno dubbi su sport, squadra e calciatore preferito. Praticamente un plebiscito: calcio, Juventus, Paulo Dybala.

Qualcuno manifesta la propria fede sportiva addirittura indossando una maglia bianconera. Che abbia sul petto un vecchio sponsor poco importa, le strisce verticali sono inequivocabili. Altri l’accostamento low cost se lo fanno in casa: giubbottino nero, t-shirt bianca.

C’è chi segue il basket, indossa un cappellino con su “NY”. «L’ho comprato a Auchan – dice un ragazzo del Gambia – sedici euro; mi piace il basket…». Attimo di pausa, cambia subito registro. Mima una giocata che con la pallacanestro ha poco in comune. Quasi sferrasse un calcio a un pallone che non c’è. «Ma il football – parla inglese il tifoso che tradisce subito la sua preferenza sportiva – mi coinvolge tanto; anche io, come miei connazionali e amici tifo Juventus, dal giorno in cui ho messo piede in Italia; prima una certa simpatia per il bianconero, poi il tifo, fino a raccoglierci insieme ad ogni partita della squadra davanti alla tv per assistere al campionato: ci piaceva la squadra che giocava meglio delle altre, faceva sempre gol e aveva un giocatore fortissimo: Paulo Dybala».

IMG-20171008-WA0075E se non fosse stato sufficientemente chiaro, chiede a gesti penna e taccuino per scriverlo di getto. Caratteri rigorosamente stampatello: “Paulo Dybala”. Era chiaro anche prima, ma le cose meglio metterle per iscritto, non si sa mai. La cosa diverte. Ma era per mostrare che l’ammirazione sconfinata per l’attaccante argentino non era occasionale.

Domenica il campionato, mercoledì la Champion’s si ritrovano tutti insieme. Vedono le partite della Juventus e del loro beniamino. In serie A, dicono, non ci sia storia. «Quando ero a casa – conferma un nigeriano – nel villaggio in cui abitavo capitava di seguire partite di calcio inglese, spagnolo e italiano: non c’era campionato più entusiasmante, però, di quello vostro; che ora sentiamo anche nostro». Vostro, nostro. Usa gli aggettivi con discrezione, quasi impegnasse per qualche istante il bilancino del farmacista. Come fosse chissà quale forma di appropriazione indebita. Qualsiasi cosa dia gioia, invece, appartiene a tutti, indistintamente. Una esultanza non ha maglia, né colori. «La Juventus – riprende – le vinceva tutte, faceva tanti gol in ogni partita: una volta arrivato in Italia, quella che era simpatia è diventata una passione; così oggi tifo bianconero e Dybala, un giocatore immenso». L’ultimo concetto lo sostanzia con un po’ di fantasia: disegna nel vuoto un cerchio immaginario. Lo scopo è il voler esprimere la grandezza applicata alla tecnica calcistica dell’argentino. Come il suo amico ospite del CAS di via Cavallotti a Taranto, ha reso perfettamente l’idea.

Milan, Inter e Napoli. Un tempo si sarebbe detto «percentuali bulgare». Insomma, non richiamano identica passione. Anzi, per dirla con il sondaggio estemporaneo, sarebbero “non pervenute”. Non sono più i tempi di Van Basten, Ronaldo e Maradona, comprensibile tifare per i più bravi di oggi.

«Una volta a settimana ci incontriamo – dice un ivoriano – e vediamo insieme le partite: è raro che la Juventus perda, così siamo tutti più contenti, è la più forte di tutte». A uno di loro scappano insieme battuta, pacca amichevole e slogan di un carosello televisivo: «Ti piace vincere facile!». L’espressione accompagnata da un largo sorriso, mostra un momento di gioia e una riflessione. «Forse è proprio così – si fa serio uno degli juventini più convinti – siamo talmente stanchi di soffrire per molti altri motivi che non ci va di fabbricarci delusioni proprio con il calcio, che poi è un gioco e dura giusto il tempo di una partita a settimana».

La discriminazione è causa di insonnia!

Quando torno a casa e sono di cattivo umore, se chiamo a tarda ora figure istituzionali e mi sentono alzare la voce o usare termini poco convenzionali, le persone che mi sono vicine, la mia famiglia, capisce che qualcosa non va, non funziona. Mi conoscono troppo bene e sanno che non litigo con le persone, mi inquieta il “sistema” fino al punto di non riuscire a dormire. E’ una inquietudine che si trasforma in rabbia pensando al lavoro continuo, quotidiano, che i miei colleghi che lavorano nelle strutture di accoglienza dei migranti svolgono con grande fatica spinti dal sentirsi al servizio degli altri, pari come chiunque dovrebbe sentirsi di fronte ad un altro uomo, donna, anziano, bambino. Ad un’altra persona.

E quando succede (e succede spesso!) che il “sistema” si inceppa ti chiedi in quale Paese vivi fino al punto di sentirti decontestualizzato.

Ho trascorso la notte pensando alla correlazione che passa tra doveri e diritti, ovvero al percorso che porta all’accesso ai diritti che passa attraverso il rispetto delle regole, del rispetto delle Leggi come dovrebbe avvenire di solito in un Paese “democraticamente normale”.

Ma dentro il Paese che credi sia “democraticamente normale” incontri, quasi quotidianamente, forme aliene, ti confronti con il surreale. E’ come se ti trovassi a parlare con persone di un altro pianeta ma che vivono e stanno qua con ruoli di responsabilità civile e sociale ricoperti in una inconsapevolezza che spiazza l’interlocutore, che fa cadere le braccia, demotiva (non tutti!).

Io, mi arrabbio e non mi demotivo! Anzi, traggo linfa vitale per andare avanti sul percorso della costruzione del modello sociale della convivenza perché sono sempre più convinto che la fase dell’accoglienza è una fase transitoria, temporanea: un ponte gettato per raggiungere il fine ultimo dell’integrazione.

Non mi scrivete e non mi chiamate per sapere perché sono di cattivo umore.

Non ve lo dico!

Chi ha detto che la mia penna può fare più male di un colpo di pistola forse ha ragione. E sa che è inchiostro che scorre nel sangue.

Ma ho bisogno di qualcuno che insieme a me condivida l’odio profondo di fronte ad atteggiamenti che puzzano di discriminazione, di rifiuto dell’altro, di esclusione.

In un Paese che ha finalmente adottato il primo Piano per l’Integrazione, è brutto svegliare di notte Sindaci e Assessori per chiedere che chi vuole adempiere a un dovere possa accedere a un diritto che, per Legge, è diventato un dovere!

Sicuramente non sono simpatico a molti, ma perdonatemi il difetto di esternare il mio pensiero.

E come dico sempre alla mia compagna, prendetemi come sono!

“Vogliono imparare subito!”

«Ragazzi adorabili, alle prime lezioni di alfabetizzazione avevano preso parte in pochi, poi si sono dati voce voce e hanno praticamente cominciato a diventare sempre più numerosi per prendere parte alle lezioni». Raffaella Leno, fra gli assistenti impegnati nella cooperativa “Costruiamo insieme”, è stata fra i primi a raccogliere l’invito di giovanissimi extracomunitari che volevano semplificare il loro processo di integrazione cominciando a “studiare italiano”.

«Mostrano sete di conoscenza – dice l’operatrice – come se volessero bruciare le tappe per potersi interfacciare con una realtà a loro completamente sconosciuta fino a pochi mesi fa; esisteva la possibilità di iscriverli alla scuola media statale, ma era necessario che i ragazzi cominciassero con il prendere confidenza con la lingua italiana, parlata e scritta, fondamentale per seguire i docenti».

Come in tutte le cose, subito un primo esame. «Dopo aver frequentato liberamente il corso di alfabetizzazione – spiega Raffaella – accompagnati da un mediatore, i ragazzi hanno incontrato i docenti cui spettava valutare con la massima attenzione il loro grado di istruzione; è andata bene, oltre ad avere imparato in fretta l’essenza di lingua e scrittura, ai docenti ha colpito la loro grande volontà di imparare in fretta e bene».

Alfabetizzazione, una lavagna completamente in bianco sulla quale scrivere la storia di ognuno di questi ragazzi. «Abbiamo raccolto l’invito di alcuni di loro già nel novembre del 2015, per cominciare poco dopo a lavorare seriamente, in modo ragionato, un passo dopo l’altro; il primo impegno da parte nostra e quanti si sono relazionati con i ragazzi, è stato sul far sciogliere loro la timidezza, provando già i primi giorni a rivolgere loro domande in italiano, perché a loro volta si rivolgessero al loro interlocutore, con sforzo non indifferente, comunque provando a porre domande nella nostra lingua, per sottoporli alla fine a una sorta di immersione totale».

Cosa chiedono e vogliono imparare questi nuovi “allievi” della scuola italiana. «Intanto come rivolgersi alla gente del posto, con il dovuto rispetto: come chiedere informazioni, indicazioni utili per raggiungere un ufficio, uno sportello, per poi fare autonomamente una carta d’identità, svolgere le pratiche per un permesso di soggiorno; chiedere il proprio codice fiscale con il quale svolgere operazioni presso uno sportello postale o, cosa fondamentale, come ricevere assistenza sanitaria, accedere all’STP (Libretto sanitario) per sottoporsi a visite mediche, ricevere cure e avere medicinali; godono, comunque, dell’assistenza di un operatore che li affianca per operazioni che i primi tempi possono risultare più complicate, come una fila al Comune o in un Ufficio postale».

La prima cosa che scaturisce dagli occhi e dal cuore di questi ragazzi. «La voglia di dimenticare in fretta un passato drammatico – conclude Raffaella Leno – e guardare, se possibile, a un futuro che restituisca loro, intanto, una cosa che hanno perso: il sorriso; cercano serenità con la quale affrontare la vita in condizioni finalmente umane».

“Una famiglia e un buon lavoro” Il sogno di Cristian, nigeriano, ventitrè anni

IMG-20171005-WA0006Dieci mesi. Tanto è durato il viaggio di Cristian, nigeriano, ventitré anni. Il tempo, tanto, per mettere insieme i soldi necessari per il viaggio. Non senza qualche brusco e doloroso imprevisto. «Sono partito dal mio paese – racconta, assistito da un interprete del “CAS Cavallotti” di Taranto – non è stato semplice affrontare il lungo viaggio per l’Italia: il mio obiettivo era raggiungere l’Europa, fuggire dalla miseria e dalle restrizioni del governo; alla fine ce l’ho fatta».

Cristian, sarà cattolico. «Certo, cattolico, non è un caso che i miei mi abbiano dato questo nome; sapeste quante volte mi sono rivolto al Signore in quei lunghi dieci mesi…». Taranto, Italia, Europa. Uno dei principali obiettivi che il ventitreenne ragazzo arrivato dalla Nigeria, si è posto. «Trovare un buon lavoro, dove “buono” sta per dignitoso: non ho paura di svolgere lavori di fatica, anche i più umili, purché ci sia il rispetto della persona; poi, se riuscissi a realizzare questo mio sogno, vorrei sposarmi e mettere su una famiglia».

I mestieri di Cristian, un ragazzo al quale, si diceva, non fa paura nulla, specie dopo aver superato il deserto. Un passo per volta. «Impegni faticosi ne ho affrontati, poi giunto in Libia mi sono occupato di lavori di pulizia; è lì che ho messo insieme il denaro utile per affrontare il viaggio e arrivare finalmente in Italia».

Non è andato tutto liscio, dieci mesi sono tanti. Non vorrebbe parlarne. Compie uno sforzo, quasi a voler rimuovere dalla memoria un’aggressione, la più violenta. «In pieno deserto sono stato vittima di un agguato, accerchiato da una banda di uomini senza scrupoli; prima strattonato, poi picchiato ripetutamente e alleggerito di quei pochi soldi che avevo portato via da casa. Poi, finalmente, Libia, lavoro e soldi per comprare il biglietto per la libertà».

IMG-20171005-WA0007In Italia da solo, con amici o familiari, Cristian spiega. Senza tanti giri di parole. «Solo – riprende – completamente solo, con tutti quei momenti di debolezza e nostalgia che ti assalgono quando non hai accanto qualcuno che condivida la tua stessa sofferenza: pensavo agli amici, anni spensierati, lunghe passeggiate, a quando scherzavamo sulle cose più insignificanti».

Nostalgia anche per i familiari rimasti in Nigeria. «Li sento spesso, non tutti i giorni: la prima telefonata al mio arrivo sulle coste italiane è stata per loro: “Tutto bene!”, ho esclamato, sono finalmente arrivato, il peggio è passato».

Altra nostalgia. Sorride Cristiano. «Mi manca la “girlfriend”». Parla in inglese, il giovane nigeriano, si aiuta a gesti nel confessare questa sua ultima, umana debolezza. La sensazione è che si stia alleggerendo di un peso trascinato per lungo tempo. «Vorrei coronare il mio sogno: sposarmi e vivere in Italia, se possibile».

Mettere su famiglia, avendo un «buon lavoro». Fra dieci, venti anni, ci chiediamo, e gli chiediamo, cosa insegnerebbe, racconterebbe ai suoi figli di questa sua “avventura”. «Una grande solitudine, l’incertezza del futuro, il trovarmi in costante contatto con il pericolo; ma non per mettergli paura, piuttosto per insegnargli ad amare anche le più piccole cose: ecco, vorrei che i miei figli un giorno sapessero tutto questo e che farò l’impossibile perché tutto questo un giorno non accada a loro».

“A scuola per scrivere insieme il nostro futuro”

Sorridono, non sembra nemmeno il primo giorno di scuola. Invece è così. I ragazzi che mostrano allegria, sostanziata da battute fra loro e tanto di selfie da girare a familiari e amici, sono ventisei extracomunitari, tutti intorno ai vent’anni. Stranieri in un Paese che vuole compiere passi importanti in tema di accoglienza e integrazione. Devono questa prima grande gioia al primo lavoro di alfabetizzazione svolto nella sede del Centro di accoglienza straordinaria (CAS) di via Cavallotti a Taranto.

I ragazzi cominciano il loro percorso fra i banchi dell’istituto scolastico “Colombo” di via Medaglie d’Oro. Solo volti distesi, sorridenti. Non ci sono quei bronci che di solito accompagnano i nostri studenti. I ragazzi arrivati da Senegal, Costa d’Avorio e Gambia, sono felici. Quello che stanno compiendo, ne sono consapevoli, è uno dei primi passi “istituzionali” verso un’Italia che gradualmente li inserirà nel proprio tessuto sociale per farne una risorsa.

I ragazzi, dunque, festeggiano il primo step verso l’istruzione “italiana”. Apprenderanno elementi basilari, lingua, storia, materie utili nella personale crescita didattica. Questo percorso di apprendistato servirà per meglio interfacciarsi con la nuova realtà che li circonda. Sembra semplice, ma ancora non lo è, chiedere informazioni ad uno sportello del Comune; dove rivolgersi per ricevere un codice fiscale, cure sanitarie e medicinali; fare la fila in un Ufficio postale. Ma anche il solo chiedere un indirizzo, la fermata di un mezzo pubblico, una via, una piazza.

Nel primo giorno di scuola alla “Colombo”, i ventisei studenti extracomunitari sono accompagnati da un mediatore, figura importante per introdurli in un ambiente completamente nuovo. Parlano già tre lingue i ragazzi, oltre al loro dialetto: l’arabo, il francese e l’inglese. «Ma non bastano ancora – sorride uno dei ragazzi con una certa confidenza con l’italiano – dobbiamo impararne una quarta e la cosa non ci spaventa; sappiamo chiedere informazioni importanti, vie, piazze, i numeri dei bus, ma siamo consapevoli che la strada è ancora lunga».

Lo sguardo rivolto a un futuro al quale i ventisei nuovi studenti della “Colombo”, seguiti, si diceva, prima presso il “Cas Cavallotti” di Taranto, ora guardano con grande speranza. «Se non fosse per la storia che ciascuno di noi vive ancora sulla propria pelle – dice uno dei “nuovi” studenti – il passato sembra essere alle nostre spalle, ora vogliamo guardare avanti: ci basta un sorriso, una sincera stretta di mano e un po’ di pazienza da parte dei professori: se chiederemo di spiegarci una seconda volta il passaggio di una lezione, dovranno comprendere qualche nostro disagio e possibilmente venirci incontro».

Dirigente scolastico e docenti della “Colombo” hanno subito manifestato massima disponibilità all’accoglienza dei nuovi studenti. «E’ un’esperienza dal grande spessore umano che ci rende orgogliosi – diceva l’altro giorno un professore – vedere ragazzi così disposti ad imparare non senza qualche comprensibile difficoltà dovuta alla lingua, non può che farci piacere».

Gli altri studenti della scuola hanno preso a benvolere i nuovi ventisei compagni. Ma anche loro, i ragazzi venuti da lontano, qualcosa potranno insegnarla. Solo materie dure, purtroppo: sofferenza, pericolo, dolore e l’incognita di un futuro tutto da scrivere, ma nel quale comincia a vedersi finalmente un primo spiraglio di speranza.

C’è una lavagna di fronte a Mamadou, uno dei giovani allievi. Il suo entusiasmo è contagioso. «Spetta a noi riempire quella lavagna di contenuti: cancelliamo il passato e scriviamo insieme il futuro».