«Il mio cuore batte per Baggio»

Bottio, cardiochirurgo, l’uomo dei record

Padovano, tifoso del Lanerossi, innamorato del Divin codino, esercita al Policlinico di Bari. «Per raggiungere un primato occorre essere una squadra, ognuno deve fare il suo». Affascinato dalla Puglia, bellezza, tavola, vini. «Prima i pazienti prenotavano al Nord, oggi operiamo più di quanto non facciano “su”: tre trapianti in un solo giorno, il nostro primato»

 

La notizia risale all’inizio dell’anno. A riprenderla è l’agenzia Ansa. Fa il paio con quella di un paio di anni fa. La prima riguarda tre trapianti di cuore in 24 ore. Eseguiti al Policlinico di bari, secondo quanto comunica la struttura sanitaria in una nota, evidenziando che «la maratona per la vita è partita la sera di giovedì 23 gennaio dall’ospedale universitario barese e si è conclusa poco dopo mezzanotte del giorno successivo. Gestisce gli interventi l’equipe cardiochirurgica dell’unità operativa guidata dal professor Tomaso Bottio, che si è occupata tanto delle operazioni di prelievo a Bari, Torino e Milano, quanto dei trapianti di cuore nel blocco operatorio di Asclepios.

«Condurre a termine tre trapianti di cuore in un arco di tempo così breve – aveva spiegato Bottio – è il risultato di un grande lavoro di squadra; deve esserci una perfetta sinergia tra cardiochirurghi, anestesisti, perfusionisti, infermieri e operatori di sala; solo questo ha reso possibile arrivare alla fine di questa maratona». Orgoglioso il direttore generale Antonio Sanguedolce. «Il Policlinico di Bari si conferma un centro di riferimento nazionale per la cardiochirurgia e i trapianti di cuore».

 

 

PIU’ MERIDIONALISTA DI TUTTI

Bottio, padovano, da quattro anni trasferito al Sud per dirigere l’Unità di cardiochirurgia del policlinico barese, confessa: «Sono diventato più meridionalista di tutti». Premessa plausibile, prima di spiegare come sia possibile raggiungere risultati così alti, nonostante al Sud il numero dei donatori sia molto basso. “Tanto per chiarire – scriveva un paio di anni fa il quotidiano l’Avvenire – la Lombardia ha 350 donatori l’anno, ma fa meno trapianti della Puglia con un centro solo”. «Se c’è la disponibilità degli operatori ad andare a prendere l’organo – aveva dichiarato allo stesso giornale Bottio – ovunque si trovi, si possono raggiungere questi risultati; su cinquantacinque trapianti, ventitré appartengono a donatori del Nord, sedici fuori dalla Puglia e tre dall’estero: ciò vuol dire che quest’anno abbiamo preso un aereo quarantadue volte». Bottio spiega che il percorso per arrivare alla sala operatoria e salvare la vita a un paziente non è affatto semplice.

«Per definire un organo idoneo – dice – vengono eseguiti diversi esami sulla funzionalità, la presenza di infezioni virali e batteriche e stabilire così il livello di rischio; poi l’organo viene accettato anche relativamente alle condizioni del proprio ricevente: se si ha un paziente di settant’anni va bene un organo di un donatore coetaneo, ma se il ricevente ne ha 36 posso accettare un organo di un settantenne solo se il mio paziente rischia di morire nelle successive ventiquattro ore». In questi casi, velocità e disponibilità segnano la differenza tra la vita e la morte. Come spesso accadeva in passato, era il Nord la meta di quanti necessitavano un trapianto. Oggi, ma diciamo anche da qualche anno, il numero di preferenze si è capovolto. «In passato la maggior parte degli utenti del Sud preferiva farsi inserire in lista per trapianto di organo nei centri del Nord che avevano un più alto volume di trapianto del cuore; ora riusciamo a trapiantare molto rapidamente gli utenti che mettiamo in lista ogni anno».

 

 

SUD, CHE PASSIONE

Il suo percorso di chirurgo lo ha spiegato nei giorni scorsi a Gianni Messa, giornalista di Repubblica in un ampio servizio per l’edizione di Bari. «Arrivo da associato nel gennaio del 2022, poi nell’estate del 2023 Milano va in pensione e io divento il facente funzione fino a un nuovo concorso, nel 2024, e la nomina a professore ordinario». Una compagna da 15 anni. E una bimba di sei. «Vivono a Padova: Jonida medico a Venezia; faccio il pendolare una volta al mese, anche se mi sono ripromesso di salire più spesso perché meritano entrambe la giusta attenzione».

Benvenuto al Sud. «Conoscevo la Puglia dai libri di storia dell’arte e dal vivo il Salento, ma non ero mai stato a Bari. Il primo impatto l’ho avuto con lo stadio San Nicola, l’astronave di Renzo Piano: una bella sorpresa». Gli chiedono della sua passione calcistica. «La stessa di quando ero un giovane ultrà: il Lanerossi Vicenza, quello del grandissimo Roberto Baggio». Ancora Puglia. «Ho scoperto paesi bellissimi – conclude Bottio – a cominciare da Sammichele di Bari con il suo centro storico, e piatti incredibilmente buoni, due vini su tutti: la verdeca fra i bianchi e il primitivo fra i rossi; poi c’è la signora che mi assiste per le pulizie che ogni tanto mi porta i suoi fagioli, i ceci o riso patate e cozze». Un classico.

Addio Francesco, papa degli ultimi

Lunedì mattina la scomparsa del pontefice

«Dio è con i migranti», sosteneva Sua Santità. «Il Signore è con loro, non con quelli che li respingono: lui stesso attraversa il mare e il deserto; non rimane a distanza, ne condivide il dramma ed è lì con loro, soffre con loro, piange e spera con loro»

 

Addio Francesco, papa degli ultimi. Il pontefice è morto lunedì mattina, a causa di un collasso cardiocircolatorio. “Il campione di tutti”, “Tanto Padre”, “Campione del mondo”. Tre titoli, ad effetto, da tre quotidiani sportivi. L’addio del papa balza agli occhi di tutti noi, per la sua popolarità, non solo da tifoso di calcio, ma perché amava “allenarsi” con il calcio che considerava metafora universale.

Ci piace partire da una rubrica di ieri, in “prima”, a cura del giornalista-scrittore Luigi Garlando, che ricorda la storica intervista rilasciata dal Pontefice alla Gazzetta dello sport nel 2021. «La Chiesa perde la guida – scriveva ieri Garlando – la Storia un gigante di umanità che, con scomoda intransigenza evangelica, è stato vero Francesco: Papa degli ultimi». Trascendente, ma anche fisico. «Se insulti mia mamma, ti do un pugno». Legato alla terra dal sangue contadino degli avi piemontesi; vicino al popolo e alle sue passioni, tipo lo sport, non oppio, ma palestra di spiritualità.

 

 

DIO E’ CON I MIGRANTI

In più occasioni, papa Francesco aveva detto: «Dio è con i migranti, respingerli è peccato grave». Era tornato su un tema che gli stava particolarmente a cuore in più occasioni, chiedendo giustizia per loro, facendo il possibile per unire gli sforzi contro i trafficanti di esseri umani. «Per accompagnare il popolo nel cammino della libertà – aveva detto papa Francesco – Dio stesso attraversa il mare e il deserto; non rimane a distanza, no, condivide il dramma dei migranti, è lì con loro, soffre con loro, piange e spera con loro: il Signore è con i migranti, non con quelli che li respingono».

Il Pontefice aveva aggiunto, non senza sdegno, che c’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i migranti. E questo, quando è fatto con coscienza e responsabilità, è un peccato grave. «Il mare nostrum – aveva aggiunto – luogo di comunicazione fra popoli e civiltà, è diventato un cimitero, e la tragedia è che molti, la maggior parte di questi morti, potevano essere salvati; non dimentichiamo ciò che dice la Bibbia: “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai”».

 

 

«L’ITALIA HA BISOGNO DI LORO»

«In quei mari e in quei deserti mortali, i migranti di oggi non dovrebbero esserci, e ce ne sono purtroppo», aveva ricordato Francesco. «Ma non è attraverso leggi più restrittive, non è con la militarizzazione delle frontiere, non è con i respingimenti che otterremo questo risultato». Il papa aveva esortato a trovare una soluzione, per esempio, «provando ad ampliare le vie di accesso sicure e regolari per i migranti, facilitando il rifugio per chi scappa da guerre, violenze, persecuzioni e da tante calamità; lo otterremo favorendo in ogni modo una governance globale delle migrazioni fondata sulla giustizia, sulla fratellanza e sulla solidarietà». «E – aveva aggiunto – unendo le forze per combattere la tratta di esseri umani, per fermare i criminali trafficanti che senza pietà sfruttano la miseria altrui».

Figlio di migranti italiani emigrati in Argentina, papa Francesco aveva definito i migranti come “maestri di speranza”, ricordando l’esperienza migratoria della propria famiglia e il valore della speranza e della tenacia che accomuna i migranti di tutte le epoche. «A casa abbiamo sempre vissuto quel senso di andare lì per fare l’America, per progredire», aveva detto Sua Santità. Un’esperienza che considerava universale. «Ogni migrante parte sperando di trovare altrove il pane quotidiano», come affermava San Giovanni Battista Scalabrini, il patrono dei migranti.

Le stelle sono tante…

Yoji, giapponese, da allievo di Bottura ad imprenditore avveduto

La sua storia comincia da un “no” secco. I genitori vorrebbero facesse il farmacista. Lui ringrazia, ma la vita vuole costruirsela lui. Sfonda a Milano, una serie di locali, poi il riconoscimento Michelin. Lui, però, non ci sta dentro, vuole imprimere al suo futuro un altro colpo di coda, così come racconta Gambero Rosso, nel capoluogo meneghino spettina i giochi

 

Un riconoscimento inorgoglisce, ci mancherebbe pure che a un complimento qualcuno rispondesse con una linguaccia, stile-Einstein, ma Yoji, chef giapponese affermato e molto conosciuto a Milano, un bel giorno capovolge il cielo. Rinuncia a rimettersi in gioco e fregiarsi di una, due, tre preziose stelle Michelin, guida fra le più autorevoli nel campo della ristorazione, per fare di testa sua, nonostante fosse in odore di palmares. Lo chef dagli occhi a mandorla che si è fatto le ossa sotto la guida di Massimo Bottura all’Osteria Francescana, infatti, ha già deciso su qual è la sua strada, quale percorso intraprendere, tant’è che a metà mese ha aperto, meglio dire ha trasformato, la sua attività.

E’ un’idea che arriva dal Sol Levante, non è una novità, ma a Milano dove Yoji ha debuttato in questi giorni pare stia già facendo proseliti e abbia già superato l’esame-curiosità. Insomma, meglio di così non poteva andare, tanto da aver attirato le attenzioni di uno dei “giornali” e dei siti più autorevoli, tanto che l’ottimo Eugenio Marini a Yoji ha dedicato un ampio servizio. Pare che trattoria e ristorante classico non funzionino più rispetto al passato. Anzi per dirla, come scrive Gambero Rosso, questo tipo di locali, seppure ancora gettonati, cominciano ad annoiare un po’.

 

 

«GRAZIE BOTTURA, UN MAESTRO!»

Così, «in una città come Milano, sempre a caccia di novità, adesso il “divertimento” viene offerto dalla dimensione dei listening bar, che coinvolgono a tutto tondo l’ospite», scrive Marini. «Il format di successo in Giappone – scrive – lì dove sono nati negli Anni Cinquanta i jazz kissa caffè, ha preso ormai piede anche qui in Italia». Lo chef fa immersione totale a Tokyo, studia in profondità, come viene facile a chi ha mentalità giapponese, spartana diremmo noi. Yoji ha deciso di prendere questa “nuova” strada rispetto al suo locale in qualche modo superato dalla sua stella filosofia, quella che non ci sta ad allinearsi a ristoranti e trattorie per quanto molto frequentate.

Lui intende valorizzare un certo stile, tanto che al suo annuncio di apertura, avvenuta lo scorso 16 aprile, l’“opening” del suo Hi-Fi bar e dining, risponde un pubblico a metà fra il classico e il “moderno”: succede, e questo Yoji lo sa. Il progetto, come anticipa Gambero Rosso ha un nome preciso: Mogo.

 

 

FARMACISTA MANCATO, GENIO DELLA TAVOLA

Ma chi è Yoji Tokuyoshi. Ce lo spiega in due battute lo stesso Eugenio Marini. «I genitori per lui avevano pronosticato un futuro da farmacista, ma quello che sarà un futuro chef, sceglie un’altra strada: la cucina. In patria si fa le ossa acquisendo metodo e rigore culinario, ma maturità professionale arriva in Italia, sotto la guida, si diceva, di Massimo Bottura all’Osteria Francescana, dove si consacra nei panni di sous chef fino al 2014».

L’afferma milanese, prima con il suo Tokuyoshi (stella Michelin nel 2015), poi conBentoteca, locale dalla storia particolare, partita da una lunch box, una formula d’asporto pensata ai tempi della pandemia per stare “vicino” alle persone con preparazioni comfort della tradizione nipponica.

Avere identità e saper comunicare il proprio pensiero a volte può valere più del resto, persino del fascino travolgente della grande materia prima. Al vecchio allievo di Bottura non va giù la storica rappresentazione italiana della cultura culinaria del Sol Levante, condizionata dalla subcultura del sushi all you can eat – scrive il Gambero Rosso, e dipinta come “economica”, nel senso anglosassone di “scarso valore”. E perciò distorta, «senza cultura (conoscenza)». La stessa filosofia anima gli altri progetti: Alter Ego a Tokyo, Katsusanderia al Mercato Isola e Pan, bakery di recente apertura. Non sarà diverso per Mogo, new entry in casa Kazoku, la società di Tokuyoshi e Alice Yamada. E che buon pro gli faccia. 

«Il mio Ramadan…»

Nadia Battocletti, campionessa azzurra di atletica, musulmana

«Sveglia tra le tre e le quattro del mattino per fare un’abbondante colazione, dolce o salata: un pasto leggero», racconta alla Gazzetta dello sport. «Nel tardo pomeriggio, un piatto arabo, ma anche datteri, che adoro; la sera, invece, qualcosa di più serio: pasta, carne o pesce». Mamma Jawhara Saddougui, marocchina, ex mezzofondista, rivela ad atleticamagazine.it: «Quando era piccola andavamo sempre in Marocco d’estate: quando finirà l’università si rimetterà a studiare l’arabo»

 

Sfogli la Gazzetta dello sport, che sia cartacea o in pdf, il giornale più letto d’Italia, scrive e racconta calcio in quantità industriale. Però, c’è il “però”: quando, nelle pagine successive alle attività pallonare di A, B e C, sbuca un articolo, che poco ha che fare con lo sport nazionale, allora c’è da prestare attenzione. Uno sportivo, che non sia Sinner, deve avere non uno, ma almeno dieci motivi per avere uno spazio così significativi. Fra le pagine più curate, che abbiamo spesso apprezzato, quelle di “Altri mondi”: la politica e qualsiasi altro affare, televisione e cinema compreso, trattato in una “cartella” (l’unità di misura di una redazione giornalistica) in modo esaustivo. Ma questo, è il caso di dire, questo è un altro mondo.

Dunque, qual è l’articolo che la Rosea ha dedicato in questi giorni a una delle voci fuori dal coro calcistico? Bene, svelato l’arcano: a Nadia Battocletti, grande atleta, argento olimpico nei diecimila metri piani ai Giochi di Parigi dello scorso anno. Fra i diversi temi affrontati da Nadia, uno di quelli che ci stanno particolarmente a cuore: il Ramadan che ha da poco concluso. Sapete quanto rispetto abbiamo per la fede religiosa di chiunque. Quando poi a raccontarsi e a raccontare la sua esperienza di fede e di sport è un’italiana (madre marocchina), non può che avere tutta la nostra attenzione.

 

 

SVEGLIA ALLE TRE DEL MATTINO…

Dunque, la Battocletti in questi giorni ha rivelato la sua massima attenzione posta al mese del digiuno islamico. «Non è stata una vera e propria passeggiata di salute – ha raccontato l’atleta alla “Gazzetta” – in quanto mi svegliavo tra le tre e le quattro del mattino per fare un’abbondante colazione, dolce o salata: un pasto leggero, nel trado pomeriggio, fra le 18.00 e le 19.00, con un piatto arabo, per esempio di datteri che adoro». Non finisce qui. «Verso le 21.30 – prosegue Battocletti – qualcosa di più serio: pasta, carne o pesce: i liquidi, non da assumere di giorno, superavano i tre litri nelle 24 ore; sia chiaro: non soffrivo fame o sete, in quanto l’apporto calorico complessivo non era tanto diverso dal mio solito».

Torna al marzo scorso. «Ho portato tutto all’estremo – confessa alla “Gazzetta” – forse gli ultimi giorni sono stati pesanti; osservo il Ramadan, una fede e una cultura ereditate dalla mamma, marocchina: sono felice di osservarle; le chiavi sono disciplina e autocontrollo, non è semplice, ma mi stimola, mi apre ad altre prospettive, mi serve in tutto».

 

 

MAMMA JAWHARA CONDIVIDE

Mamma, Jawhara Saddougui, marocchina si diceva, anche lei ex mezzofondista, segue la figlia come un’ombra. In una bella intervista rilasciata a Giuseppe Scordo per atleticamagazine.it, Jawhara ha svelato più di qualche aspetto più personale. Per esempio, se Nadia conoscesse l’arabo. «Quando era piccola – rivela – e andavamo sempre in Marocco d’estate, lei studiava la scrittura, un esercizio che col passare del tempo ha coltivato un po’ meno; a livello orale, capisce tutto ma parla poco, però mi ha detto che quando finirà l’università, si rimetterà a studiare l’arabo, una promessa che non può che farmi piacere: è musulmana come me, osserva il Ramadan fin da piccola.

Infine, Nadia, proprio da bambina, chiedono a mamma come la sua piccola fosse in tenera età. «Vivace, non stava mai ferma, si è dedicata a tanti sport: faceva anche tennis ed equitazione ma non tornava mai a casa stanca; difficile starle dietro, con lei ho tirato fuori il massimo delle energie che avevo». Qualcosa sui primi passi compiuti nell’atletica. «Partecipava alle gare di paese qui in Val di Non – spiega ad atleticamagazine.it – ma più che la gara in sé, a lei piaceva il dopo, perché poi si facevano delle piccole festicciole e amava divertirsi con gli altri bambini; essendo figlia unica, a casa non aveva con chi giocare o litigare: stare fuori all’aria aperta e in compagnia la faceva sentire felice».

«Taranto, capitale del rock!»

Torna Medimex sulla Rotonda del Lungomare Primal Scream e St. Vincent (20 giugno) e Massive Attack (21 giugno)

Ecco le stelle dell’International Festival & Music Conference promosso da Puglia Culture. Un brand che felicemente si coniuga nell’ambito delle azioni di Puglia Sounds, il progetto per lo sviluppo del sistema musicale regionale realizzato in collaborazione, nemmeno a dirlo, con Regione Puglia. L’intervento del presidente Michele Emiliano, che pensò di dirottare la rassegna sulla Città dei Due mari, e di Aldo Patruno, direttore Dipartimento Turismo e Cultura

 

Massive Attack, Primal Scream e St. Vincent! Due gruppi fra i più amati e una cantautrice di grande spessore e popolarità che fa già incetta di riconoscimenti e titoli di vendita, saranno le star dell’edizione 2025 del Medimex.

Come ogni anno, di questi tempi, Taranto scuote il mondo rock e ospita artisti di profilo internazionale. Di più, li ospita anche per un “mordi e fuggi”, vale a dire per un’“unica data italiana”, ad impreziosire la proposta di una rassegna diventata punto di riferimento al Sud. Grazie al Medimex, anche quest’anno, dal 17 al 21 giugno, Taranto ospita quel rock di grana grossa che tanto piace ai giovani, ma anche ad un pubblico più maturo, di più.

Una volta l’anno, il suo ombelico, quella incomparabile e suggestiva Rotonda sul Lungomare Vittorio Emanuele, che non più tardi del 10 aprile ha ospitato la fine del Ramadan (digiuno per un mese, dall’alba al tramonto), si riempie di musica. Quella musica che ancora oggi fa ammattire anche più di una generazione.

 

Primal Scream

 

NOMI SEMPRE ALL’ALTEZZA

Massive Attack, Primal Scream e St. Vincent, dunque, sono queste le stelle del Medimex 2025, International Festival & Music Conference promosso da Puglia Culture. Un brand che felicemente si coniuga nell’ambito delle azioni di Puglia Sounds, il progetto per lo sviluppo del sistema musicale regionale realizzato in collaborazione, nemmeno a dirlo, con Regione Puglia. Medimex, hanno spiegato in conferenza stampa, torna con un ricco programma dedicato al tema della Strada, offrendo grandi concerti internazionali, showcase, attività professionali e formative, incontri, mostre, racconti e presentazioni. Insomma, di tutto e di più.

Potremmo esagerare, parlare di un rock che a Taranto è di casa. Non se ne abbiano a male i “cugini” baresi, ma da qui per tanti anni è passato il rock più vibrante degli Anni 80. Epoca in cui una sorta di masterchef, Marcello Nitti, incoraggiato da un indimenticato Rocco Ture, patron del Tursport, ospitava, in ordine sparso, Bauhaus, New Order, Cult, Siouxie & The Banshees e gli Style Council, per toccare l’apice con Simple Minds e Ultravox. Una tradizione che poteva proseguire, se al tarantino Gigi D’Amato all’alba del Duemila fosse stata impedita ospitalità, lo stadio Iacovone. Lui che aveva ospitato nel giugno 2003 i Simply Red, a dieci euro a biglietto, qualche tempo dopo, organizzò lontano da casa Jamiroquai a Trani e, udite udite, Bob Dylan a Foggia. Bob Dylan, ci pensate? Incredibile, ma vero.

 

St. Vincent

 

SKUNK ANNANSIE, NICK CAVE, PATTI SMITH…

Solo lo scorso anno abbiamo applaudito The Smile, The Jesus and Mary Chain e Pulp. Poi, indietro con la memoria, sempre sulla Rotonda, applausi per Echo & the Bunnymen, Skunk Anansie, The Cult, Nick Cave, Liam Gallagher, Patti Smith, Kraftwerk e Placebo.

Ma torniamo al Medimex del prossimo giugno. Fuori da qualsiasi promozione politica, che lo si voglia o no, anche grazie all’interessamento del presidente Michele Emiliano e del suo esperto entourage, Taranto è tornata ad avere i concerti di statura internazionale. Come quelli, si diceva, in programma fra due mesi, nella consueta cornice della Rotonda del Lungomare di Taranto: venerdì 20 giugno Primal Scream, tra le formazioni della scena scozzese, e St. Vincent, cantautrice statunitense vincitrice di cinque Grammy Award; mentre sabato 21 giugno, toccherà ai Massive Attack, inventori del trip hop, fortemente impegnati sul fronte ambientale e politico, tra le band più influenti degli ultimi quarant’anni.

 

Massive Attack

 

PUGLIA “TRAVOLTA” DALLA MUSICA

«Anche quest’anno il Medimex travolgerà la Puglia con un programma di concerti di assoluto rilievo – ha dichiarato Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia — con Massive Attack, Primal Scream e St.Vincent insieme rappresentano un viaggio tra generi e sonorità che sono sicuro richiamerà pubblico da ogni dove e ancora una volta metterà Taranto al centro della musica mondiale.  Accogliamo con grande orgoglio Diodato e Michele Riondino nella squadra del Medimex, squadra che sinora ha ottenuto risultati straordinari e che da oggi si arricchisce di due fuoriclasse. Sono certo che faranno un grande lavoro e porteranno il Medimex a raggiungere mete ancora più ambiziose. Questa grande manifestazione ogni anno riesce nell’impresa di superarsi e diventare un traino fondamentale per la promozione della nostra regione».

 

Medimex Taranto

 

GRANDE VALORE CULTURALE

«Medimex ogni anno conferma il suo valore sul piano culturale, regionale e nazionale, e rappresenta un modello anche per la virtuosa collaborazione e cooperazione tra i tanti soggetti istituzionali coinvolti — commenta Aldo Patruno, direttore Dipartimento Turismo e Cultura Regione Puglia – Medimex ancora una volta è l’approdo e il punto di partenza della strategia regionale per il comparto musicale che si sviluppa nel corso dell’intero anno ed è un forte volano per i talenti e le imprese del territorio. Ai grandi concerti, che portano in Puglia il gotha della musica mondiale, anche questa edizione affianca un rilevante calendario di attività professionali rivolte alle imprese e agli operatori del settore, showcase per promuovere le novità della musica regionale, le scuole di musica dedicate ai più giovani, incontri, presentazioni e occasioni per entrare in contatto con il mondo della musica. Un insieme di azioni che svolgono una duplice funzione: agiscono sullo sviluppo del settore musicale regionale e diventano un elemento qualificante e distintivo di attrattività per il territorio».

Patrizia Conte in black…

Una tarantina vince “The Voice senior”, il talent di Raiuno

Meritatamente si aggiudica il talent di Raiuno condotto da Antonella Clerici. «Scusatemi, non volevo vincere!», ha detto l’interprete tarantina, visibilmente emozionata dopo per aver conquistato il pubblico da casa. Affettuosamente ripresa e benevolmente scossa dalla presentatrice: «Patrizia, ma cosa dici?! Ti meriti tutto!». Condividiamo

 

Patrizia Conte, tarantina, vince a mani basse “The Voice senior”, andato in onda su Raiuno venerdì sera. Tarantina, trasferitasi a Milano, corista e insegnante di canto, originaria di Taranto, artista del team di Gigi D’Alessio, con la sua interpretazione di “Oggi sono io” di Alex Britti (cantata sul registro di Mina, che ne ha fatto una sua versione), ha conquistato il pubblico da casa aggiudicandosi vittoria e un contratto con un’etichetta discografica multinazionale. Emozionatissima, a fine gara, com’è nel suo stile, quello di tutti i giorni, Patrizia ha dichiarato: «Non ho mai vinto niente nella vita, oggi mi sento un’altra!». Emozione.

Una vittoria meritata, lei che prima di misurarsi col pop ha impegnato tutta la sua attività nel jazz. Le voci alle quali si è ispirata, lo scrive uno che l’ha conosciuta tanti, ma tanti anni fa, quando proprio non voleva saperne di cambiare appena registro: Ella Fitzgerald e Aretha Franklin, conosciutissime; lei, però, cocciuta, andava ad ascoltare, studiare, riprendere anche Billie Holiday, Bessie Smith, Sarah Vaughan e Betty Carter, giusto per fare qualche nome.

 

 

«ELLA E ARETHA NEL CUORE»

Strizzando l’occhietto a una musica più leggera, avrebbe moltiplicato serate, poi tour e contratti discografici. «Preferisco dieci, venti persone che ascoltano le canzoni che mi piace interpretare, piuttosto che cento che mi ascoltino cantare…», diceva Patrizia, ogniqualvolta le si consigliava una strada evidentemente più breve per abbracciare il successo, quantomeno la popolarità. «Vado avanti per la mia strada, punto». E punto, per Patrizia, non era un segno di interpunzione buttato lì, tanto per provocare: era il suo modo di fare. Mai scelto il grigio, mai stata con due piedi in una scarpa: o bianco o nero; le sfumature esistevano solo sul tono della voce, quando ci metteva, ci mette, ci metterà, il suo punto di vista, che poi è quello vocale. Fra il bianco e il nero, ovviamente vince il nero. La sua è una voce “black”, non si scappa, lo avrà compreso anche Gigi D’Alessio, il suo capitano, che trovandosi al cospetto di una pietra preziosa, nemmeno da lavorare, mediante taglio o lucidatura: è tutta lì, da ammirare.

«Dieci, venti che ascoltano le canzoni che mi piace interpretare, piuttosto che cento che mi ascoltino cantare…». «Cantare, interpretare». In apparenza, ma solo in apparenza, due verbi che sembrano parenti stretti. Non è così, c’è una bella differenza, come il giorno e la notte. La luce del mattino e la sera, notte fonda, nera, come l’anima che questa ragazza dal sorriso così contagioso da emozionare, riesce a trasmettere. Mamma mia, cos’è ‘sta ragazza quando canta Aretha o Ella!

 

 

«SCUSATEMI SE HO VINTO!»

«Scusatemi, non volevo vincere!», ha detto Patrizia Conte, visibilmente emozionata per aver conquistato la vittoria, affettuosamente ripresa, benevolmente scossa da Antonella Clerici, conduttrice del talent: «Patrizia, ma cosa dici?! Ti meriti tutto!». Condividiamo. La finalissima del programma vedeva a contendersi il titolo definitivo solo donne, ben quattro concorrenti: Monica Bruno e Maura Susanna (Team Arisa) e Graziella Marchesi (anche lei nel team di Gigi D’Alessio). Una sfida tra due soli coach, considerando che Clementino e Loredana Berté non avevano aspiranti vincitori in gara.

Sin dall’inizio del talent, Patrizia è stata indicata tra le favorite, conquistando il cuore del pubblico, ma anche dei giudici, cantando “Oggi sono io” di Britti, ma, come si diceva, nella versione di Mina, la star che ancora oggi carica l’ugola con tre ottave di estensione vocale. La sua interpretazione è stata decisiva per potersi aggiudicare il podio e, dopo questo traguardo, Patrizia potrà pubblicare un inedito con una multinazionale, che si occuperà anche nel confezionare un vinile con tutte le cover con cui l’interprete tarantina si è esibita durante l’edizione del talent.

«Non ho mai vinto niente nella vita, sono stra-strafelice, mi sento un’altra: grazie, sono felice!», ha detto dichiarato a caldo dopo la proclamazione. «Questa partecipazione mi ha liberata, ho capito che la gente sa chi sono davvero attraverso la mia voce; mi piacerebbe lasciare un segno anche piccolo, ma importante». Da venerdì sera ci sta già lavorando.

«Torno, ma non è una sconfitta»

Sabino, pugliese, compie la sua scelta di vita “al contrario”

«Dipendente alla Maserati con milleseicento euro al mese, in tasca non mi restava più nulla», racconta. «Così ho fatto le valigie, ci ho rimesso dentro anche i miei sogni e via, senza rimpianti».  Riconoscente agli emiliani, «tornare a stare vicino ai propri cari non ha prezzo»

 

«Tornare indietro può sembrare una sconfitta, magari per qualcuno lo è, ma alla fine tornare a casa propria, comunque sui propri passi, è riconfigurare una scelta di vita». Non è un pensiero di Sabino, lui sì che è un ragazzo coraggioso e a breve ne racconteremo a larghi tratti la sua “scelta di vita”, ma è una canzone – chiamiamola così – che in questi anni stiamo ascoltando troppo spesso fino ad assumere il tono di un imbarazzante tormentone. Sono in molti gli uomini, i ragazzi del Sud, a tornare sui propri passi. I più maturi, pensionati, i sopravvissuti al monoreddito, compiono quasi una scelta obbligata; i più giovani, hanno provato a imprimere una svolta, studiando e “mantenendosi”, ma è stata dura: i ritmi sono diventati insostenibili, quei pochi soldi guadagnati in lavori part-time o a tempo pieno, non sono sufficienti per fare una cosa e l’altra: lavorare e studiare.

E una volta finito lo studio, quella laurea che “giù” non poteva conseguire, vale “su”? Bel dilemma. Così stiamo assistendo sempre più a un doloroso ritorno a casa. La Puglia, in particolare, e per fortuna, sta diventando la meta più invitante dei turisti. Prima solo in estate, adesso anche in primavera, in autunno. Al resto, a uno studio sostenibile anche stando a casa, non ci pensa più nessuno. «Partono i cervelloni, perdere un pezzo di intelletto ci indebolisce, non ci permettere di crescere», dice con tono dimesso chi vede partire i propri figli all’estero.

 

 

IL SOGNO NON ABITA QUI

«Mio figlio, un elettricista, di quelli in gamba, è partito per il Canada, nel giro di un paio di anni è diventato un manager, l’azienda per cui lavora non può più fare a meno di lui: è legato all’Italia, può lavorare in remoto, così ha preso casa a Roma e sta sei mesi in Canada, sei mesi in Italia: non “scende” spesso in Puglia, ma se vogliamo vederlo possiamo anche raggiungerlo nella capitale, quattro ore di auto…». Questo un papà, rassegnato. Tutto sommato soddisfatto che il figlio, almeno, non abbia da raccontare una sconfitta, una cocente delusione. Insomma, per un genitore, sapere “sistemato” il proprio figlio tutto sommato può essere una consolazione.

C’è poi chi, invece, come Sabino, torna. La sua è stata una decisione elaborata, rimuginata, rimescolata ben bene e, alla fine, da quel ragazzo sveglio che è – è un ingegnere, “chapeau”! – ha preso la sua scelta. Non “dolorosa”, perché con milleseicento euro al mese di stipendio, in Emilia Romagna, come puoi mettere su famiglia? Se fai un mutuo, non puoi mangiare e, ad oggi, fino a prova contraria quello di mangiare è un vizio difficile da farsi passare.

Sabino, dunque. La sua storia, raccontata dal Corriere del Mezzogiorno, “dorso” del Corriere della sera, e ripresa dal free-press Leggo, è di un ritorno a casa. Ci fossero state le condizioni per restare incollato a un sogno, sarebbe rimasto in Emilia. Adesso è qui, parla senza reticenze della sua decisione.

 

 

PROGETTI ADDIO

«Ringrazio l’Emilia Romagna, pensavo che il mio futuro professionale potessi scriverlo qui, invece no…». Trentadue anni, originario di Canosa di Puglia, dopo anni tra Bologna, Modena e Maranello, ha deciso di tornare a casa. Troppo alto il costo della vita, vanno bene i sacrifici, ma quando alla distanza ti accorgi che fra le mani non ti restano nemmeno le briciole, allora prendi una decisione.

«Lavoravo come infermiere in Inghilterra – riporta la Redazione web del Corriere del Mezzogiorno – millesettecento euro a settimana, corsi pagati e un aiuto per l’affitto, ma sono tornato a Bologna…». Laureato in Ingegneria Elettrica al Politecnico di Bari, percorso di studi completato nel capoluogo emiliano, ha compiuto i primi passi nel mondo dell’automotive elettrico.

 

 

LA FERRARI, DI CORSA A CASA

Prima l’approdo alla Ferrari, a Maranello (Modena), poi alla Maserati di Modena come project manager energy. «Progettare le componenti per i primi veicoli elettrici Maserati mi sembrava un sogno». Un sogno che faceva a cazzotti con la busta-paga. «Milleseicento euro, 750 solo per l’affitto, più le spese, mi restava ben poco per vivere».

Nel 2021, un’offerta da Enel X, settore della mobilità elettrica, sede a Roma, ma il lavoro da remoto gli consente di trasferirsi a Canosa, respirare aria di casa e ridurre i costi. Gennaio 2025, l’occasione: il trasferimento definitivo a Bari, negli uffici di viale Capruzzi, Sabino prende casa a Molfetta. «Venti minuti di treno e sono al lavoro: solo chi ha vissuto al Centro-Nord può capire i costi altissimi da affrontare», dice Sabino. Nessun rimpianto, solo gratitudine. «Ho sempre amato il sole e il calore della Puglia, ora l’ho rivalutata ancora di più; poi, essere vicino ai propri cari non ha prezzo».

Dazi amari, per tutti

Non arranca solo l’Europa sui mercati internazionali

Le borse europee bruciano oltre 683 miliardi di euro in un solo giorno. Uno schianto che segue all’annuncio del presidente Usa Donald Trump sull’import. E il saldo complessivo sale a 1.924 miliardi di euro. Il tycoon americano si scaglia anche contro la Cina, che invece invita al dialogo. Non è un buon momento par la politica internazionale, né per le tasche della povera gente

 

Non è un bel momento. Non entriamo in politica, registriamo i fatti. Per settimane si sono inseguite ipotesi e ricadute su quella che sarebbe stata, e poi lo è stata, la decisione del presidente Usa, Donald Trump, nell’applicare dazi salatissimi sulle importazioni. Una prova di forza, secondo il tycoon, di un Paese forte economicamente e che può influire sull’economia del resto del mondo.

Una volta messo in opera il diktat di Trump, i primi riscontri. Che non fosse una passeggiata di salute, per l’Europa, come per gli stessi Stati Uniti, era cosa risaputa. Ma che fosse un bagno di sangue, e siamo solo agli inizi, questo non poteva prevederlo nessuno. Le agenzie italiane e internazionali descrivono quanto stia accadendo in queste ore: «L’Europa brucia oltre 683 miliardi di euro», titola un lancio dell’Ansa; «Conseguenze per l’Italia: l’effetto su imprese, lavoro e famiglie», sottolinea l’agenzia Adnkronos. Insomma, non c’è da stare allegri. Ma non è solo l’Europa a tremare. La scelta, convinta, di provocare un terremoto galattico, non porta bene nemmeno agli stessi Stati Uniti.

 

 

UNA, BASTA E AVANZA

Per dirne una. Nello scorso fine-settimana Elon Musk, primo sostenitore e consigliere personale di Trump, ha cercato personalmente di convincere il presidente americano a revocare i dazi, anche quelli sulla Cina. L’opera di convincimento fin qui esercitata non avrebbe avuto successo. Lo riporta il Washington Post, citando proprie fonti anonime, ma evidentemente autorevoli considerando il prestigio della testata giornalistica americana.

La “discussione” di Musk con Trump sulle tariffe, una priorità dell’amministrazione americana, rappresenta il punto di vista meno condiviso, ad oggi, tra il presidente e uno degli uomini più ricchi del pianeta. “Tesla”, uno degli asset miliardari di Musk, per esempio, ha visto le vendite trimestrali crollare drasticamente a causa delle reazioni negative al suo ruolo di consigliere di Trump. Uno dei segnali più palpabili: le sue azioni scambiate a 233 dollari, da inizio anno hanno fatto registrare un calo non molto lontano dal 50%.

 

 

«UN ERRORE DOPO L’ALTRO»

La Cina interviene raramente a gamba tesa. Prima, per come dire, mostrare i muscoli, per filosofia, ma anche per motivi economici anziché no, ma quando lo fa, si scatena senza mezzi termini. «Un errore dopo l’altro», indica Pechino, «il governo non accetterà mai la “natura ricattatoria” degli Stati Uniti e considera le ultime minacce di dazi avanzate dal presidente americano Donald Trump “un errore su un altro errore”». Insomma, Trump e i suoi strateghi ci ripensassero. Senza giri di parole, un portavoce del Ministero del commercio cinese, fa sapere che se Washington insisterà nel percorrere questa strada, la Cina lotterà fino alla fine».

Trump rilancia, crea un’ulteriore lacerazione. In uno dei suoi ultimi interventi, tesi a spaventare i suoi interlocutori, ha dichiarato che imporrà ulteriori tariffe del 50% se la Cina non ritirerà i suoi dazi del 34% di ritorsione contro gli Stati Uniti. In soldoni: gli Stati Uniti che aumentano i dazi nei confronti dell’import va bene; la Cina che combatte una simile posizione aumentando i prezzi nel tentativo di far comprendere che questa politica porta solo a uno scontro economico sanguinoso, va male.  Così Pechino invita Washington al dialogo, unica strada per risolvere le varie questioni sul commercio.

 

 

ACCORDI: LA CINA NON E’ VICINA

«La Cina sollecita gli Stati Uniti a cambiare registro e cancellare tutti i dazi unilaterali contro la Cina, a fermare la soppressione economica e commerciale contro la Cina e a risolvere in modo adeguato le differenze con la Cina attraverso il dialogo con rispetto reciproco e su un piano di parità». Uno a uno. La palla passa agli Stati Uniti, sperando che il governo americano venga a più miti consigli. Le borse europee, si diceva, bruciano oltre 683 miliardi di euro alla fine della terza seduta che segue l’annuncio dei dazi del presidente Usa Donald Trump. Sommato a quello delle due giornate precedenti, il saldo complessivo è pari a un rosso di 1.924 miliardi di euro. Provate a comprendere, alla fine, chi pagherà.

Italia, qui non nasce più nessuno

Istat, i dati raccontano di un Paese che invecchia

Aumentano gli anziani, il saldo fra nascite e morti è preoccupante. Un giro fra regioni e città dove si vive più a lungo (al Nord) e dove si vive meno (Sud e Isole). Bolzano l’ideale, Napoli e Caserta così e così. E, fra uomini e donne, vince il gentil sesso: quattro anni in più

 

Non sarà un Paese per vecchi, solo per parafrasare uno dei libri Cormac McCarthy, cui si è ispirato il film, stesso titolo, dei fratelli Re Mida del cinema hollywoodiano, ma poco ci manca. Le ultime stime, riprese dai siti, dai giornali e sui quali La Stampa realizza un vero focus, non sono incoraggianti. In Italia si invecchia, si vive evidentemente più a lungo, ma non si nasce. Lo confermano i dati Istat dello scorso anno: il trend è di quelli, per prenderla alla larga, che preoccupano. Si muore di più e si nasce di meno, con un saldo fra defunti e neonati sul quale riflettere: nasce 6,3 su mille abitanti; la percentuale sui decessi, invece, sale a 11,0 su mille residenti. Bolzano mantiene, per fortuna, un saldo positivo. Lo stesso, però, non si può dire di Roma e Milano, le due metropoli italiane, che registrano una differenza sostanziale, in negativo, fra nati e morti.

“Il caso più allarmante – scrive Ugo Leo – è rappresentato dalle province del Piemonte, della Liguria e del Friuli Venezia Giulia, dove il declino demografico è particolarmente evidente. In città come Genova, Biella e Trieste, il tasso di mortalità supera di gran lunga quello di natalità, segnando un progressivo spopolamento. Il record negativo è di Isernia: nel 2024 è stata la provincia con meno nati in assoluto, circa 400 circa”.

 

 

QUI SI VIVE DI PIU’…

Il nostro Paese si conferma una delle nazioni al mondo in cui si vive di più: la media racconta di ultraottantenni (81,4), anche se non ovunque, in Italia, è possibile registrare la stessa longevità. Le province in cui si vie di più, le troviamo al Nord: Treviso, Lecco e Monza e Brianza. Qui si superano gli 83 anni di media: bel primato. Per quanto anche  due regioni come Trentino-Alto Adige e Veneto forniscono numeri confortanti. E al Sud? E’ la classica coperta. Se al Nord c’è un picco alto, del Sud non si può dire la stessa cosa: situazione critica in Campania e Calabria. Qui dove l’aspettativa di vita scivola addirittura sotto gli 80 anni. Province più rappresentative di un trend sicuramente preoccupante Napoli e Caserta.

Abbiamo visto il Nord, dove si vive più a lungo; una porzione di Sud, dove si vive un po’ meno rispetto alla media. E al Centro? Tasso medio di natalità: 5,8. Ma come in ogni parte d’Italia, dal settentrione al meridione, si riscontrano cifre a contrasto. Qualche esempio: a A Napoli, rispetto a Milano, nascono 1,1 bambini in più ogni mille abitanti. Catania tasso di natalità superiore di 1,5 punti rispetto a Roma. A Bolzano, si diceva, si nasce molto di più rispetto a Torino. La Calabria, invece, fa la differenza con la Liguria: DUE bambini in più ogni MILLE abitanti.

 

 

DONNE & UOMINI

L’aspettativa di vita delle donne. Netta differenza tra Nord e Sud. Intanto, le donne vivono mediamente quattro anni in più rispetto agli uomini. Nello specifico: Treviso fa registrare il dato più alto: 87 anni. A ruota Milano, Verona, Vicenza, Forlì-Cesena con 86 anni. Più bassa la media a Napoli e Siracusa: 83 anni.

L’aspettativa di vita degli uomini. Il record italiano è per la provincia di Lecco. Secondo i dati Istat, gli uomini hanno raggiunto una media di 83 anni. Sulla stessa media anche Monza e Brianza, idem Ravenna. La provincia con la speranza di vita più bassa: Caserta, 79 anni. Lo stesso, si diceva, per Siracusa e Napoli. In buona sostanza, i dati Istat dicono che le province del Nord e del Centro hanno in media una speranza di vita più alta rispetto al Sud e alle Isole.

«Quanto insegnano le sconfitte!»

Gianni Bugno, due volte campione del mondo, si alza sui pedali

«Mi è toccato ripartire, ma che sconfitta vedere gli altri scappare. Tranne uno, “El Diablo”, Claudio Chiappucci, cui sarò eternamente grato», dice il grande ciclista, maglia iridata nel ’91 e nel ’92. «Mi ritirai dal liceo, colpa di una professoressa, ma poi conseguii il titolo di studio per prendere il brevetto da pilota di elicotteri…»

 

Gianni Bugno, a più di trent’anni dai suoi titoli mondiali, a molti il suo nome dirà poco. Male, molto male: ci troviamo di fronte a una vera leggenda, uno sportivo di statura internazionale, con due titoli mondiali, tanto per gradire; un uomo che in questi giorni ha raccontato quanto di bello la vita di grande ciclista gli abbia riservato, ma ha anche fatto outing, cioè confessato quanto la vita non gli ha risparmiato.   

Tredici anni da professionista, dall’85 al ‘98, è stato campione del mondo su strada (’91 e ’92). Settantadue vittorie, nove tappe al Giro d’Italia (vinto nel ’90), quattro al Tour de France e due alla Vuelta a España. Se su strada era imbattibile, in politica non si poteva dire che Gianni, il buon Gianni, fosse irresistibile. Due candidature, due bocciature (Regionali e Comunali).

In questi giorni il Corriere della sera lo ha intervistato. Bella intervista di Marco Bonarrigo. Ce ne sono, ma questa, permetteteci di esprimere un’opinione, conoscendo questo lavoro, è veramente bella. Scava in profondità, lo fa con stile, riesce a tirare fuori cose che, forse, non si sarebbe mai sognato di raccontare. Considerazioni mai estorte, ma rese perché l’intervistato stabilisce subito una certa empatia con il cronista, fino ad aprire i cassetti della memoria provando, perché no, a fare anche un po’ d’ordine.

 

 

BELLO IL GIRO, MA…

«Bello il Giro d’Italia – confessa, in buona sostanza, Bugno al giornalista – ma la prima vittoria da ragazzino a Monza mi fece un effetto straordinario: una sensazione fortissima, mai più vissuta». Prosegue il due volte campione del mondo, che svolta. «A posteriori ho capito che apprezzavo più le sconfitte: mi facevano riflettere sugli errori e su come intervenire per correggerli: ecco, ho imparato dal modo in cui perdevo».

Il ciclismo come professionista arriva a seguito di una delusione avuta come studente. «Fui rimandato in italiano e latino, da una professoressa che sosteneva che chi faceva sport non potesse andare bene a scuola, così non mi presentai agli esami dichiarando chiusa la mia esperienza studente».

La maturità scientifica arriva più tardi. C’è una ragione. Quel titolo di studio gli serve per conseguire il brevetto di pilota di elicotteri. «Guardavo l’elicottero della Rai che ci sorvolava durante le gare – dice il campione – e pensavo che quello sarebbe stato il mio nuovo lavoro: cinquemila ore in volo prima con la Rai poi al 118».

Turni pesanti. «Dormivo in branda negli aeroporti militari: turni di dodici ore, cinque minuti per accendere i motori dopo la chiamata, trenta secondi per decidere se decollare o meno». Fondamentali, infatti, sono le condizioni del tempo, una responsabilità non indifferente. Per se stesso e per gli altri. Lui, il pilota, gli altri, personale medico, paramedico e passeggeri da trasportare in ospedale, in gioco il bene più prezioso: la vita».

 

 

UN COLPO AL CUORE

Cinque anni fa, causa un malore, a Bugno tolgono il brevetto per non riconsegnarglielo più. «Non c’è stato verso di riaverlo. È stato un periodo bruttissimo, la Federazione Ciclistica mi aveva abbandonato, ero entrato in tunnel senza via d’uscita: mi salvò Claudio Chiappucci, “El Diablo”, mio antico avversario. Mi ha invitato a incontri, eventi, pedalate turistiche, fino a diventare inseparabili, mi ha restituito il senso della vita».

Cosa fa oggi, in cosa è impegnato. «Seguo le grandi gare sulla macchina della giuria; studio quello che succede e suggerisco accorgimenti per garantire che nessuno si faccia male in un mestiere dove si corrono ancora troppi rischi». Gianni Bugno è infaticabile. Non si ferma mai, la sua mente pedala, mette in ordine le ultime idee. «Ecco un altro progetto – confida a Bonarrigo – guidare i camion, ho le patenti B, C e D; eccetto i bus di linea, posso guidare tutto: se qualcuno ha bisogno, io ci sono».